Gli americani hanno violato la bolla di sicurezza che protegge Baghdadi
Roma. Giovedì 3 marzo Abu Atheer al Halabi. Venerdì 4 marzo Omar il ceceno. Venerdì 25 marzo Abu Ali al Anbari. I tre nomi possono non dire molto al grande pubblico, ma si tratta di icone dello Stato islamico, sono comandanti protagonisti della fase dell’espansione territoriale durata dal 2013 all’anno scorso, assurti allo status di star per chi segue la propaganda del gruppo. Sono stati uccisi nel giro di tre settimane da operazioni americane mirate nel territorio della Siria (dove in teoria il Pentagono non ha un accesso riconosciuto dal governo di Damasco). I tre sono stati prima localizzati e seguiti, non sono vittime dei bombardamenti che fanno parte del corso normale della guerra. Il terzo, Abu Ali al Anbari, non è nemmeno stato ucciso in un bombardamento mirato, ma in un tentativo di cattura da parte delle Forze speciali vicino a Deir Ezzor e questo vuol dire che è stato sorvegliato in tempo reale così a lungo che gli elicotteri americani che partono da oltre confine, dalla Giordania, dall’Iraq o dalla Turchia, hanno avuto il tempo di raggiungere il suo veicolo.
A queste operazioni va aggiunto uno sbarco riuscito della Delta Force vicino Tal Afar con gli elicotteri per catturare un comandante del gruppo – Abu Dawud – che aveva l’incarico specifico di occuparsi dell’arsenale del gruppo, incluse armi chimiche rudimentali, che è avvenuto “a febbraio” – l’ufficio stampa del Pentagono non ha specificato di più e i media dello Stato islamico non ne fanno cenno. L’operazione è stata insolita, perché quell’area è all’interno del cosiddetto corridoio Tal Afar-Mosul dove lo Stato islamico è più forte. Proprio in quell’area, i media dello Stato islamico due giorni fa hanno denunciato un altro tentativo di sbarco delle forze speciali, “sei elicotteri” scrivono, accompagnato da un’ondata intensa di bombardamenti normali. Questi sbarchi di solito hanno sempre l’obiettivo di catturare un leader, come è successo a marzo, a febbraio e anche per la prima volta a maggio 2015 – quando la Delta Force uccise un altro capo dello Stato islamico, il tunisino Abu Sayyaf, nel tentativo di prenderlo.
Iraq, bombardamenti contro lo Stato Islamico a Fallujah (foto LaPresse)
E’ un quadro che si va componendo a pezzetti, un’informazione qui e un’altra là: il Pentagono racconta la cattura di Abu Dawud a febbraio, ma non lo sbarco fallito domenica; lo Stato islamico tace sulla cattura a febbraio, ma ma non sul fallimento (?) delle Forze speciali vicino Mosul. A questo punto però è chiaro che l’apparato di sicurezza americano che ha il compito di prendere o uccidere i capi della Stato islamico – come dopo l’11 settembre con i capi di al Qaida – ha violato in qualche modo la bolla che finora li proteggeva e li sta localizzando uno dopo l’altro. Tra le ipotesi che si fanno c’è anche quella dell’infiltrato, o di più infiltrati, in collaborazione con i servizi segreti dei paesi arabi dell’area (Giordania, Arabia Saudita), entrato tra i ventimila foreign fighter arruolati dal gruppo. E’ una campagna che va avanti in sordina, per l’ovvia cortina di sicurezza che circonda queste cose, e che offre due sole certezze. Una è che il bersaglio più importante è il capo Abu Bakr al Baghdadi, l’altra è che questa cosiddetta “strategia della decapitazione” non è la soluzione definitiva perché i gruppi del jihad hanno la capacità di rigenerare la propria classe dirigente, come dimostra la storia dello Stato islamico, che è arrivato al suo terzo leader (dopo Abu Musab al Zarqawi, ucciso nel 2006, e Abu Omar al Baghdadi ucciso nel 2010).
Alcuni tra i leader del gruppo islamista vengono dai ranghi dell’esercito e dei servizi iracheni, hanno portato con loro l’imprinting ricevuto in anni di addestramento alla sicurezza sotto Saddam Hussein, spesso con istruttori sovietici. La pressione fa effetto. Al Baghdadi e il suo vice, al Adnani, non si fanno vedere in video e fanno circolare rari messaggi audio, e l’exploit del luglio 2014, quando il capo fece in pubblico il sermone del venerdì nella grande moschea di Mosul, pare oggi irripetibile.
Per accelerare questa progressione cominciata nel 2014 e per aiutare gli alleati curdo-arabi ad avvicinarsi a Raqqa, secondo il New York Times l’Amministrazione Obama sta mandando nel nord della Siria altri duecento soldati delle Forze speciali ad aggiungersi ai cinquanta già presenti.
Cose dai nostri schermi