The single storyism
Se vi dico che si possono giudicare le primarie di New York, il trionfo di Trump e di Hillary Clinton, sulla base di una formula di Chimamanda Ngozi Adichie, penserete che non sto bene. Invece me la passo non male. David Brooks, columnist del NYT, ha ritirato fuori “The Danger of a Single Story” (Il rischio di una visione unilaterale delle cose) dal titolo di una conferenza della scrittrice nigeriana dal nome impronunciabile, tenuta nel 2009. Voleva dire, la nostra Chimamanda, che bisogna finirla di raccontarci che i neri sono tutti poveri, malati, con la pancia gonfia dalla fame e la mosca che li vessa e li umilia. Se non rendi conto della complessita’ di una situazione, di un popolo, di un racconto di societa’ e di vita, rischi di privare il soggetto di cui parli della sua dignita’. I neri sono tante altre cose, per fortuna e con rispetto per i diseredati tra loro.
Brooks applica in modo intelligente e sofisticato la formula alla politica Americana di oggi: la semplificazione del “single storyism” porta il candidato di destra demagogica a dire che la colpa per i salari stagnanti dei lavoratori americani e’ dei messicani immigrati, quella del demagogo di sinistra persuade i ragazzi e altro pubblico prono all’idealismo generico che la colpa del malessere sociale e’ tutta delle banche, nuovi mostri. Sulla scia di Brooks e Chimamanda possiamo muoverci anche noi per dire qualcosa di non del tutto scontato su quel 60 per cento di Trump nella sua citta’ e nel suo stato e su quel 58 per cento di Hillary contro Bernie Sanders, lasciato intorno ai quaranta punti.
A sinistra la semplificazione demagogica ha perso. E’ vero che Hillary, per recuperare il gap sentimentale e di fascino con il vecchietto bonario e onesto, si sposta come e quanto puo’ su posizioni di sinistra liberal socializzante, ma la candidata resta una figura politica costruita sulle complesse triangolazioni, mediazioni, analisi ed esperienze di una carriera presidenziale impeccabile. La favola semplice raccontata sotto le stelle di Brooklin e di Washington Square dal neosocialista Sanders e’ politicamente evaporata con quel risultato forte ma minoritario. O almeno e’ sbiadita, ha perso il momentum.
A destra sta succedendo l’opposto. The Donald ne dice di tutti i colori ma al fondo il suo e’ un single storyism, il messaggio demagogico e’ che lui fara’ l’America di nuovo grande perche’ sa come si chiude un affare e sconfiggera’ il nemico esterno (immigrati, globalizzazione) e interno (establishment repubblicano) da uomo solo al comando. Una idea fissa nelle mani di un fenomeno unico e personale, lui, Trump. Questa impostazione ha vinto largamente, tranne a Manhattan dove ha prevalso il “complessista”, l’analitico e serio governatore dell’Ohio John Kasich. Trump sembra sulla buona strada per ottenere la candidatura a presidente a Cleveland, nel prossimo luglio. Sorprese sono sempre possibili, ma sempre piu’ improbabili. A destra dunque funziona alla grande la single story, la visione unilaterale e semplificatrice delle cose.
Tutti o quasi sono pero’ convinti che, se sara’ Trump contro Hillary, il primo perdera’ di brutto. E’ vero che in America la campagna elettorale conta, i dibattiti fra I pretendenti al trono sono duelli rusticani in cui ogni dettaglio e’ importante, e quindi e’ troppo presto per dire alcunche’. E’ vero che il tycoon e’ caldo, ha il fuoco nella pancia, mentre Hillary e’ fredda, professionale, uninspiring come si dice qui. Pero’ il tasso di apprezzamento per Trump è molto basso nell’elettorato in generale, il 26 per cento, e le ferite che si portera’ appresso dopo questa sanguigna usurpazione da irriducibile outsider potrebbero contare in modo rilevante. E’ comunque da segnalare che la demagogia e l’unilateralismo della narrazione unica prevalgono a destra e tramontano a sinistra, mentre nello scontro finale non è improbabile che esperienza e competenza raschino via l’ossessione ideologica. E’ uno schema che si applica anche alle destre e ai movimenti europei costruiti sul rigetto dell’immigrazione e della globalizzazione economica, più o meno.
L'editoriale dell'elefantino