La spaventosa storia dei rapimenti nordcoreani passa anche per Roma
Roma. Una delle pagine più dolorose della storia del Giappone è quella che riguarda i rapimenti di cittadini nipponici da parte della Corea del nord tra gli anni Settanta e Ottanta. Nella mente di Kim Jong-il, allora a capo del regime di Pyongyang, il piano era chiaro: costruire una rete di spionaggio internazionale utilizzando le abilità degli stranieri stessi, facendoli sparire e portandoli in Corea, dove avrebbero “addestrato” gli agenti segreti sotto copertura da inviare all’estero. Fu nel 2002, con la storica visita del primo ministro giapponese Junichiro Koizumi a Pyongyang, che Kim Jong-il ammise di aver rapito tredici cittadini giapponesi – sui cento stimati dal governo di Tokyo – e permise la visita e il rientro di alcuni di loro. In realtà, durante quel decennio una particolare élite dell’esercito nordcoreano ha rapito centinaia di persone, e non solo in Giappone. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, duecentomila persone sarebbero state rapite dalla Corea del nord oppure sarebbero scomparse dopo aver viaggiato nel paese. E infatti il progetto nordcoreano dei rapimenti riguarda almeno 12 paesi, ma solo Tokyo ha ancora oggi una ferita aperta in merito, e continua a lavorare per riportare a casa i suoi cittadini. Robert S. Boynton, scrittore e giornalista, ha recentemente pubblicato “The invitation Only Zone - La vera storia del progetto di rapimenti della Corea del nord”.
Boynton ha messo insieme le storie del maggior numero possibile di rapiti – perché di molti di loro si sono semplicemente perse le tracce – e ha raccontato la loro vita nelle cosiddette “Zone a invito esclusivo”, le aree in cui gli stranieri venivano deportati, controllati, indottrinati, fatti sposare e figliare senza accesso alle libertà personali. Ma nella ricostruzione di Boynton viene fuori anche un altro dettaglio: il ruolo di Roma nel progetto nordcoreano. Tra gli anni Settanta e Ottanta l’Italia è stata luogo di passaggio in almeno due vicende che riguardano le attività illecite di Pyongyang, e gli episodi lasciano intendere che la capitale italiana fosse una delle basi strategiche dell’intelligence nordcoreana. Nel 1970 Doina Bumbea, una ventiduenne rumena, si trasferisce a Roma per sposare un italiano. Due anni dopo divorzia. Si iscrive alla scuola d’arte nella nostra capitale, e nel 1978 – secondo quanto riporta Boynton e quanto riferito dal fratello di Doina, Gabriel Bumbea, durante un’audizione all’Onu nel 2014 – incontra un italiano, che si presenta come un esperto d’arte. L’uomo promette a Doina una lavoro a Tokyo e una prima esposizione a Pyongyang. Doina sparisce. Più tardi, viene data in sposa a James Dresnok, un soldato americano che aveva disertato in Corea del nord nel 1962 e lavorava per Pyongyang come insegnante d’inglese e attore. Secondo quanto riferito da Gabriel Bumbea, Doina è morta nel 1997 ma in Corea del nord sarebbero rimasti i suoi due nipoti, che non ha mai visto.
L’altra vicenda che riguarda l’Italia è legata a uno dei più tragici atti di terrorismo compiuti dalla Corea del nord. Nel 1987 il volo Korean Air 858 parte da Baghdad per Seul, con scalo ad Abu Dhabi e Bangkok. Prima di atterrare nella capitale tailandese il Boeing esplode, uccidendo 115 passeggeri. Una coppia di turisti giapponesi scende al primo scalo, subito dopo aver posizionato una radio Panasonic rivestita di esplosivo sull’aereo. I due viaggiano verso il Bahrein, dove li attende un volo per Roma. Ma in Bahrein la polizia di frontiera scopre che la coppia viaggia con passaporti falsi. L’uomo si mette in bocca una sigaretta al cianuro e si uccide. La donna, Kim Hyon-hui, viene fermata prima del suicidio e trasferita a Seul, dove vive ancora oggi. Negli ultimi anni ha mostrato pentimento per le sue azioni e ha raccontato i dettagli di quegli anni orribili, compreso il progetto nordcoreano di rapimenti. Ma non ha mai parlato di chi li avrebbe protetti, una volta a Roma.
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L'editoriale dell'elefantino