Trump è un guaio, ma rimane un grande spettacolo. Lo dice il “test” dell'amicizia
Un Trump vincente danneggerebbe noi politicamente scorretti. I fenomeni di radicale devastazione dell’ordinarietà e del già noto hanno questo di suggestivo e di potente: raddoppiano la velocità di circolazione del sangue, ti portano a pensare fuori dagli schemi noti e stranoti, eccitano e divertono e corrodono lo strato di noia precedente.
Per vent’anni la politica italiana, stranita da fenomeni nuovi e nuovissimi, radicali e intrattabili, ha messo alla prova le amicizie personali, oltre al resto. Ora con Trump tocca agli americani. Peter Wehner, che scrive di politica e di società e di idee, ed è un tipo molto rispettato e stimato, ha raccontato sul New York Times che nonostante l’Iraq e la guerra è stato possibile, con fatica, ricostruire relazioni interrotte per dissenso politico all’epoca di George W. Bush. Ma ora ci risiamo e intorno a Trump, stavolta dentro il campo conservatore e repubblicano al quale Wehner appartiene, si registra una nota di odiosa e irriducibile estraneità fra chi crede che il fatale tycoon sia una boccata d’aria e di libertà di tono e chi è convinto che sia un irredimibile cialtrone.
Bisogna dire che la politica il suo fascino struggente lo mostra proprio qui, nel suo mettere alle corde l’amicizia personale sotto il segno dell’inimicizia su questioni pubbliche. Lo stato delle anime viene sottomesso al giudizio sullo stato della città e delle relazioni pubbliche. Questa la sua forza, la sua violenta inclinazione a sequestrare tutto l’essere delle persone, senza residui, un po' come l’amore. Bisogna però distinguere tra l’amicizia basata sullo scambio, sull’affinità psicologica e morale, su altre reciprocità complementari, e quella assoluta. Montaigne scriveva che, richiesto del perché amava tanto appassionatamente Etienne de La Boétie, non aveva altro modo di rispondere che questo: perché è lui, perché sono io. Una smagliante verità che riconduce all’amicizia come mistero, deposito irrazionale di umanità allo stato puro, distillata fino alla quintessenza.
Quando Stefano Di Michele se la prendeva con “lo stronzetto di sinistra” che non capiva come il suo comunismo sentimentale potesse convivere in armonia e in intesa ironica con i nostri affettuosi cinismi berlusconiani di quei vent’anni, qui al Foglio, e insudiciava i rapporti personali, è a questo che pensava, allo sfregio che l’amicizia subiva quando era ridotta soltanto a una equazione di idee e di opinioni politiche. Ma l’amicizia non è un’equazione, semmai un algoritmo incomprensibile che apre tutte le porte. Certo, il caso Trump ha qualcosa di ancora più amaro del caso italiano. Infatti il dissenso qui ha qualcosa della guerra civile, non passa per l’alternativa tra destra e sinistra, progressismo e conservatorismo, divide quelli che stanno dalla stessa parte, almeno in linea di principio, quelli che imputano gli uni agli altri un’attitudine trumpista o antitrumpista capace di imbrogliare e perdere una comune visione delle cose patrie.
Comunque la si pensi in merito, i fenomeni di radicale devastazione dell’ordinarietà e del già noto hanno questo di suggestivo e di potente: raddoppiano la velocità di circolazione del sangue, ti portano a pensare fuori dagli schemi noti e stranoti, eccitano e divertono e corrodono lo strato di noia precedente, consentono di sapere meglio chi sei e che cosa davvero pensi. Ho idea che Trump alla fine perderà e che, se vincesse, combinerebbe guai di cui il mondo dei politicamente scorretti, dei liberi di testa, sarebbe la prima vittima. Ma in tutta amicizia e inimicizia per chi la pensa diversamente, riconosco che oggi è il più grande spettacolo del mondo.