“Saudi Vision 2030”
Riformare l'Arabia Saudita, seriously? L'Opa del principe Bin Salman
Milano. Privatizzazioni, riduzione della disoccupazione, opportunità per le donne. “Saudi Vision 2030”, il programma di riforme lanciato lunedì dal principe saudita Mohammed bin Salman, è un’Opa da rottamatore lanciata sul regno più rigido e impermeabile del mondo. L’ambizione del principe trentenne, che molti commentatori danno con un eccesso di entusiasmo come prossimo re dell’Arabia Saudita, è enorme, forse più grande della fattibilità stessa del suo programma, ma i mercati per ora reagiscono come se la rivoluzione fosse davvero possibile. Bin Salman vuole che il regno non sia più dipendente dalle entrate petrolifere – che oggi contribuiscono per l’87 per cento al budget del paese – entro i prossimi quattro anni, e per farlo punta sull’ingresso di attori privati nei settori dell’istruzione, della sanità e naturalmente delle risorse energetiche: il 5 per cento di Saudi Aramco, la compagnia nazionale di petrolio avvolta nel mistero più assoluto che produce 10 milioni di barili al giorno e che vale almeno 2 mila miliardi di dollari, sarà messo sul mercato, il primo passo per aprirsi al mondo e introdurre un concetto invero sconosciuto nel modello politico ed economico dell’Arabia Saudita, la trasparenza. Una decisione inevitabile visto il crollo ormai duraturo del prezzo del petrolio? Bin Salman fa lo spavaldo, dice che non gli interessa qual è il prezzo né gli interessa influenzarlo, se il prezzo sale ci saranno più fondi per gli investimenti non legati al petrolio, se scende ci sono i mercati asiatici ancora tutti da rifornire. “30 dollari o 70, non importa, questa battaglia non è la mia battaglia”, ha detto il principe in un’intervista sull’ultimo numero di Bloomberg Businessweek.
La spavalderia del principe è ormai leggendaria, assieme ai tanti pettegolezzi sulla sua via dissoluta, anche se ha una moglie sola, con quattro figli da zero a sei anni, e dice che i giovani sauditi non amano troppo la poligamia, “una famiglia è più che sufficiente”. Durante l’incontro con il magazine di Bloomberg, Bin Salman si è messo a fare domande al suo esperto di economia, davanti ai giornalisti, mentre quello preoccupatissimo provava a evitare di dare proprio tutte le risposte. “Quanto è vicina l’Arabia Saudita a una crisi finanziaria?”, ha chiesto il principe. E Mohammed al Sheick, il consigliere con laurea a Harvard e incarichi alla Banca mondiale, ha risposto: oggi le cose vanno meglio, “ma alla stessa domanda un anno fa, avrei probabilmente avuto un collasso nervoso”. Allora il regno si accorse di avere un problema grave di solvibilità, Bin Salman tagliò il budget del 25 per cento, mise un controllo alle spese e un tetto al mercato del debito. E’ arrivata l’austerità a Riad, si disse non senza qualche risatina sotto i baffi.
Non si sa se questo choc è alla base della rivoluzione annunciata: è difficile tutto a un tratto immaginare la casa reale saudita come un’entità in grado di modificarsi. Bin Salman vuole rivendersi come l’agente del cambiamento, con i suoi pochi anni e uno stile molto occidentale che ammalia questa parte di mondo. Dice di aver avuto un’educazione molto rigida, non si poteva arrivare tardi a cena (“succedeva un disastro”) e non si poteva discutere con la mamma, la più severa della famiglia. Bin Salman ha riscoperto il rapporto con il padre quando lo zio, temendo la sua ambizione malcelata, aveva tentato di allontanarlo dal trono. Una volta rientrato nella linea di successione, ha riformato il ministero della Difesa, chiamando aziende di consulenza americane ad aiutarlo, come se dovesse ristrutturare un’azienda. L’esercito saudita nelle mani di una troika atlantica e austera – pare impossibile. Eppure Bin Salman si è creato così la sua fama di rottamatore, che oggi gli permette di dire che i sussidi su cui vive l’economia saudita devono essere ridimensionati, ma che non saranno toccati i giovani e i più poveri: i ricchi finanzieranno la rivoluzione.
Ora che Bin Salman è uscito allo scoperto, gli analisti commentano: vediamo se le sue sono soltanto parole. Modificare il patto sociale dell’Arabia Saudita, cioè del regno fondato sui petrodollari, è un azzardo che avrà un peso sulla tenuta del principe. Oltre all’economia, ai giovani disoccupati e alle donne da coinvolgere, ci sono le guerre. L’Arabia Saudita sponsorizza il terrorismo sunnita, sta facendo la guerra in molti paesi – primo fra tutti lo Yemen: l’architetto di quel conflitto è lo stesso Bin Salman – ed è disposta a tutto pur di contenere l’espansione dell’Iran. Soprattutto il patto di potere dentro il paese, come ha ricordato David Gardner sul Financial Times, è tra la casa dei Saud e l’establishment wahabita che, in cambio del controllo dell’istruzione e del sistema giudiziario (leggi la pena di morte), garantisce legittimità al regno: “Si tratta di una relazione simbiotica tra la monarchia assoluta e una dottrina islamista che tratta ogni altra forma di islam come illecita, alimentando il sentimento jihadista nel paese e nella regione”. Per fare la rivoluzione, bisognerebbe scardinare questa colonna portante del sistema saudita. Bin Salman è in grado? Non si sa nemmeno se ne ha l’intenzione.