Un comizio di Trump a Indianapolis (foto LaPresse)

L'imprevedibile realismo di Trump

Donald Trump ha riconvertito il motto “America First” per veicolare una dottrina di politica estera alternativa tanto alla Freedom Agenda di George W. Bush, quanto a quell’eterodosso infuso di pragmatismo spicciolo e ideali imperituri che va sotto la mitologica etichetta di “dottrina Obama”.

New York. Donald Trump ha riconvertito il motto “America First” per veicolare una dottrina di politica estera alternativa tanto alla Freedom Agenda di George W. Bush, quanto a quell’eterodosso infuso di pragmatismo spicciolo e ideali imperituri che va sotto la mitologica etichetta di “dottrina Obama”. Hillary Clinton siede da qualche parte fra quei due modelli. America First era il nome del comitato che all’alba della Seconda guerra mondiale invocava la neutralità degli Stati Uniti nel conflitto, uno sforzo trasversale che ha messo insieme Gerald Ford e John Fitzgerald Kennedy, Gore Vidal e Walt Disney; l’iniziativa si è dissolta sotto le bombe di Pearl Harbor, nel 1941, e ora Trump cerca di aggiornare quel sentimento di isolamento all’assetto globale post Guerra fredda e post Undici settembre. “America first sarà il tema principale e prevalente della mia amministrazione”, ha detto ieri nel primo discorso articolato sulla politica estera dopo tanti indizi contraddittori e incerti sparsi lungo il percorso elettorale. L’occasione è stata organizzata dal Center for the National Interest, il laboratorio del pensiero realista fondato da un presidente che per i think tank non aveva simpatia, Richard Nixon. Preferiva “l’arte del deal”, per dirla con Trump, all’accademica proclamazione di dottrine e ortodossie, e chi si aspettava dal frontrunner repubblicano una rassegna dettagliata delle iniziative di politica estera che la sua Amministrazione approverebbe è rimasto deluso. Trump dipinge il suo messaggio con un pennello grande, la sua tavolozza permette poche sfumature, senza contare che teorizza “l’imprevedibilità” come criterio di azione: “Come nazione dobbiamo essere più imprevedibili”.

 

L’imprevedibilità, giura, è la via per una visione organica e coerente. Di certo il candidato abbraccia le premesse di una dottrina realista o isolazionista, orientata a una definizione ristretta dell’interesse nazionale, fortemente contraria a qualunque ideologia globalista (“lo stato-nazione rimane il vero fondamento della felicità e dell’armonia”) e all’avventurismo militare. La forza dell’America “great again” di Trump si mostra non soltanto nei muscoli di un esercito rimesso a nuovo, ma nella cautela, nella capacità di negoziare strategicamente con gli amici e con quelli che soltanto per inettitudine politica sono diventati avversari, vedere alla voce Russia e Cina. “L’eredità degli interventi di Obama e Clinton sarà quella della debolezza e della confusione”, ha detto. La settimana scorsa Hillary era sulla copertina del magazine del New York Times come un soldatino pronto a muover guerra, lei che è diventata il rifugio dei falchi neoconservatori rimasti senza nido. La premessa su cui è costruita la visione di Trump è l’incapacità degli Stati Uniti di forgiare una nuova visione dopo la Guerra fredda, quando “sciocchezza e arroganza” hanno portato i leader americani ad alimentare il caos: “E’ iniziato tutto con l’idea pericolosa che potessimo trasformare in democrazie occidentali paesi che non avevano esperienza né interesse nel diventare democrazie occidentali”. A cascata sono arrivate la conseguenze disastrose, dall’impiego eccessivo di risorse per l’estero all’incoraggiamento del parassitismo degli alleati.

 

Nel discorso di Washington, letto al telemprompter dopo tanta enfasi da comizio a braccio, non si è fatto mancare la bacchettata alla Nato, la cui “missione va aggiornata”, e agli alleati che approfittano della generosità americana. Il mondo tratteggiato da Trump è a corto di principi universali, è uno scacchiere dominato dai rapporti di forza e dai negoziati, un mondo dove i Bush, i Clinton e Obama sono macchiati dallo stesso peccato originale della geopolitica a trazione morale. Nello scenario del realismo trumpiano, per ottenere il “deal” occorre essere in posizione di vantaggio, cosa che si ottiene curandosi più dei muri che dei finanziamenti esteri, occupandosi prima del deficit che della Libia. Comportandosi, insomma, da nazione guidata da interessi perimetrabili, e non da superpotenza eccezionale chiamata a portare la fiaccola della libertà fino agli estremi confini della terra.