Davutoglu è il “good cop” turco che rischia il posto anche sull'Ue
Roma. La Commissione europea si prepara oggi a presentare le sue raccomandazioni sulla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, parte dell’accordo sui migranti stipulato alla fine di marzo. Ankara non ha rispettato tutti i 72 criteri imposti dall’Ue per entrare nella lista dei paesi che non hanno bisogno di un visto per accedere al territorio comunitario, ma l’aspettativa, corroborata da indiscrezioni giunte a molti organi di stampa tra cui Reuters, è che la Commissione darà parere positivo. Il Parlamento turco, tra una rissa e l’altra (martedì la seconda in pochi giorni) si sta muovendo con sveltezza per approvare gli ultimi criteri, tanto che ieri Ankara ha accettato di togliere la necessità del visto per entrare in Turchia a tutti i cittadini europei, compresi i greco-ciprioti (pur non riconoscendo la legittimità di Cipro), mossa che fino a pochi giorni fa sembrava improponibile. Intorno alla questione dei visti la posta è altissima, non solo per Bruxelles, che ha bisogno della Turchia per bloccare il flusso dei migranti verso la Grecia, ma anche per il premier turco Ahmet Davutoglu, che è stato il volto dialogante della Turchia durante tutte le trattative, che ha corso molti rischi personali e che sulla questione dei visti, ha scritto il Financial Times in un articolo informatissimo, si gioca il posto. E’ stato Davutoglu, ha scritto il quotidiano della City riprendendo voci che girano da tempo negli ambienti diplomatici, a spingere per l’accordo con l’Ue quando il sultano turco, il presidente Recep Tayyip Erdogan, mostrava scetticismo e insofferenza. E’ stato lui, con una mossa che ha sorpreso perfino la cancelliera tedesca Angela Merkel, a mettere il sigillo definitivo sul deal con l’offerta di riprendersi in Turchia tutti i migranti arrivati in Grecia – decisione presa senza consultare Erdogan. Sempre Davutoglu ha difeso l’accordo mentre il presidente se ne allontanava, assumendosi la responsabilità della sua riuscita e dunque la colpa in caso di fallimento.
Quest’idea di un Davutoglu europeista che si gioca la carriera difendendo l’accordo con l’Ue davanti a un Erdogan scettico e arcigno è molto vicina al wishful thinking dei leader Ue, che sperano che nella Turchia ormai dominata da Erdogan ci siano ancora leader determinati ad approfondire l’alleanza con l’occidente senza gli eccessi del presidente. In realtà, al netto del wishful thinking europeo, il posto del premier è davvero traballante da molto tempo, e non solo per la questione dei visti. Davutoglu lo ha sempre saputo. La sua nomina rientra nel grande disegno di Erdogan di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, e il premier, fedelissimo ex ministro degli Esteri, avrebbe dovuto essere il funzionario solerte che presiede al trasferimento dei poteri esecutivi da una carica all’altra. Ma più di una questione interna e internazionale ha allontanato premier e presidente, tanto che il quotidiano turco Hurriyet ha scritto che la rottura tra i due è ormai “una questione di tempo”, benché ancora martedì Davutoglu abbia negato ogni attrito e ha riconfermato la sua fedeltà alla “causa comune”.
Il colpo più duro è arrivato pochi giorni fa, quando il partito di governo Akp, manovrato da Erdogan, ha tolto a Davutoglu – che dell’Akp è presidente – il potere fondamentale di nominare i dirigenti locali e provinciali. Le discordie continuano sull’atteggiamento del governo nei confronti della guerriglia curda, che Erdogan ha più volte definito troppo leggero, tanto da provocare le rimostranze del vicepremier Bülent Arinç. Il presidente ha criticato duramente anche le manovre del governo sulla Banca centrale e sulla nuova legge anticorruzione, e sarebbe stato motivo di scontro il reintegro del potentissimo Hakan Fidan a capo del servizio d’intelligence Mit. Molti ritengono ormai che Erdogan abbia deciso di sacrificare Davutoglu al congresso dell’Akp del prossimo autunno. La Turchia perderebbe un premier, l’Europa il poliziotto buono nelle trattative.
L'editoriale dell'elefantino