C'era una volta l'America che invadeva la Libia perché l'Europa tentennava
Dopo la guerra d’indipendenza, tra il 1778 e il 1805, gli Stati Uniti erano alla ricerca di una collocazione nel sistema politico internazionale che potesse garantire un riconoscimento stabile e duraturo. Fu proprio il Mediterraneo, a dispetto di qualsiasi previsione, a fornire alla giovane nazione l’occasione di imporsi all’attenzione delle grandi potenze. Ciò avvenne in maniera imprevedibile e, per molti versi, “originale”: lo scontro con quella parte del mondo islamico che, dalle coste nordafricane, lanciava attacchi continui al commercio e alla navigazione in Mediterraneo e in Atlantico. Le molteplici scorrerie dei corsari barbareschi rendevano la navigazione talmente pericolosa da imporre alle potenze europee una serie di regole non scritte, prima fra tutte la radicata abitudine di “pagare un tributo per ottenere la pace”.
La neonata repubblica americana, priva ormai della protezione dell’ombrello imperiale britannico, si era caratterizzata sin da subito per la sua politica estera di natura commerciale, una novità straordinaria per un’epoca mercantilistica, in cui la libertà di commercio e di navigazione non era affatto prevista. Il 1776, infatti, aveva sancito con la Dichiarazione d’Indipendenza non soltanto la nascita di una nuova entità statuale repubblicana, democratica e confederale, ma anche l’applicazione concreta della teoria smithiana del liberalismo economico. La Francia era stata l’unica, per ovvi motivi, a riconoscere gli Stati Uniti e proprio ai francesi gli americani guardavano nella speranza di essere protetti dagli attacchi dei “Barbary States”. Non era affatto semplice, però, fare accettare alla Francia un tale ruolo e il Congresso americano ne era consapevole, tanto da raccomandare ai propri agenti diplomatici di insistere affinché, nel trattato franco-statunitense di amicizia e di commercio in corso di negoziazione, venisse inserito un articolo che obbligasse il re di Francia ad usare tutta la sua influenza per difendere i vascelli americani.
Le difficoltà di perseguire questo obiettivo convinsero gli Stati Uniti della necessità di cercare un modo autonomo per confrontarsi con i sultanati nordafricani, anche perché avevano subìto la cattura della nave mercantile Betsy l’11 ottobre 1784, trasportata, con tutto il suo equipaggio, a Tangeri, per costringere il governo americano a firmare un trattato col sultano del Marocco. Personaggi come John Adams, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson furono ufficialmente incaricati di negoziare una serie di trattati di pace con gli Stati barbareschi, anche attraverso la mediazione di uomini di fiducia, conoscitori delle realtà locali. Il primo risultato concreto si ebbe anche grazie al sostegno spagnolo e alla disponibilità del sultano marocchino Sidi Muhammad Ibn Abdallah: nel gennaio del 1787, infatti, fu firmato il primo trattato statunitense con uno Stato non europeo, ratificato nel luglio successivo dal Congresso. L’importanza di quest’evento fu grande sia perché gli Stati Uniti non avevano dovuto sborsare alcuna somma per ottenere la firma della controparte, sia perché in alcuni articoli si prevedevano i principi della “most favored nation” e di extraterritorialità.
Il secondo presidente degli Stati Uniti John Adams
Interessante la preliminare negoziazione dell’inviato americano Thomas Barclay con Tahar Abdulhaq Fennish, ambasciatore marocchino, così riferita ad Adams e a Jefferson: “All’apertura della negoziazione, mi fu chiesto dall’interprete che cosa avrei offerto, da parte degli Stati Uniti, come dono nel futuro, oppure come tributo, ed io replicai [...] che avrei offerto a Sua Maestà l’amicizia degli Stati Uniti in cambio della sua, per firmare un trattato con lui sulla base di accordi liberali ed equi. Ma se fosse stato necessario un impegno futuro per doni o tributi, io non avrei firmato alcun trattato”.
La libertà di commercio, su cui gli americani basavano la propria politica estera, continuò, però, a essere messa in pericolo dagli altri Stati barbareschi. Il 25 luglio del 1785 la goletta americana Maria fu catturata al largo delle coste portoghesi dai pirati algerini e l’equipaggio fu tenuto prigioniero per ben 11 anni, mentre il bellicoso dey di Algeri – sempre più autonomo da Costantinopoli – dichiarò guerra agli Stati Uniti, chiedendo circa un milione di dollari per firmare la pace e requisendo il vascello americano Dauphin. Muhammad V, descritto da al-Zahhar come “devoto alla pura shari’a e amante del jihad”, si comportava come tutti gli altri governanti nordafricani. L’inviato americano John Lamb, da Tripoli, aveva chiarito al proprio governo che un tale comportamento “era fondato sulle leggi del loro profeta, che era scritto nel Corano che tutti i popoli che non avessero riconosciuto la loro autorità sarebbero stati considerati infedeli, che era un loro diritto e un loro dovere dichiarare loro guerra ovunque fossero e renderli schiavi una volta catturati, e che ogni musulmano morto in battaglia sarebbe andato sicuramente in Paradiso”.
Di fronte a una tale situazione, gli Stati Uniti compresero di dover affrontare il problema alla radice: dopo aver concluso positivamente una sanguinosa guerra con la madrepatria ed essere diventati la più grande repubblica federale del mondo, essi non potevano certo rischiare di essere messi alle corde da alcune lontane propaggini dell’Impero Ottomano, che sfruttavano la loro posizione geo-strategica nel Mediterraneo per richiedere alle potenze europee una sorta di pedaggio di transito nelle rotte commerciali. Per non cedere al ricatto dei corsari nordafricani e per continuare a forgiare la propria politica estera sulle linee del laissez-faire, gli americani avrebbero dovuto dotarsi di una Marina da guerra a protezione delle navi mercantili del proprio paese, dimostrando al mondo intero di essere una nazione in grado di difendere le proprie scelte internazionali.
D’altra parte, era impensabile sottostare a un ricatto come quello perpetrato dalle reggenze barbaresche, che di fatto praticavano una sorta di “monopolio” sulla concessione dell’autorizzazione alla navigazione marittima. Gli Stati Uniti, dunque, si trovavano di fronte ad un’importante scelta di politica estera: l’appeasement o la guerra. Nel primo caso, essi si sarebbero mantenuti nel solco delle nazioni tributarie delle reggenze barbaresche (in particolare Gran Bretagna e Francia), “comprandosi la pace” pur di consentire ai propri vascelli mercantili di solcare indisturbati i mari; nel secondo caso, invece, avrebbero dovuto attuare una vera e propria politica estera “alternativa” rispetto alle scelte consuete delle potenze europee, così come “alternativa” era stata quella di presentarsi al mondo come il primo paese fautore della libertà di commercio e di navigazione.
Insomma, fare la guerra avrebbe significato il rifiuto totale di qualsiasi ricatto, soprattutto da parte di paesi percepiti come culturalmente lontani dalle proprie tradizioni di rispetto delle libertà personali, politiche ed economiche, paesi “barbari” appunto, molto di più di quanto lo fossero gli indiani della selvaggia wilderness. Del resto, furono gli stessi potentati nordafricani – come ha sostenuto lo storico Ray W. Irwin – a rilevare la grande differenza esistente tra gli Stati Uniti e le altre nazioni europee, perché i primi “non incoraggiavano i corsari ad attaccare i rivali nel commercio. Il tributo era [da loro] giudicato un furto e risultava molto più ripugnante agli americani che ai più sofisticati europei. L’indignazione morale era una potente forza motivante per i commodori navali e per i consoli americani, una forza che i governanti barbareschi non compresero mai abbastanza”.
Nave francese attaccata da corsari barbareschi
Nei quattro anni intercorsi tra la cattura delle navi e l’elezione di George Washington a primo presidente degli Stati Uniti nel 1789, il Congresso americano era stato chiaramente incapace di risolvere la prima crisi internazionale relativa alla liberazione degli ostaggi. Il problema stava nel fatto che l’attenzione dell’opinione pubblica si era concentrata soprattutto sull’acceso dibattito costituzionale, accantonando il problema dei prigionieri di Algeri, sei dei quali intanto avevano perso la vita a seguito delle durissime condizioni di prigionia. Del resto, non si voleva in alcun modo aprire il tavolo delle negoziazioni ufficiali per non cedere al ricatto degli algerini, soprattutto dopo la scoperta di una vera e propria “lista dei prezzi” per le nazioni europee come riscatto per la liberazione dei prigionieri, anche se furono fatti vari tentativi di diplomazia “sotterranea” per sbloccare la situazione.
A ciò s’aggiungevano le notizie “dall’interno” pervenute, con estrema fatica, dal capitano O’Brien prigioniero ad Algeri, che consentivano di conoscere un po’ meglio la cultura islamica. O’Brien raccontava delle terribili condizioni di vita degli ostaggi, costretti ai lavori forzati e soggetti all’epidemia di peste, oltre che sottoposti alle continue richieste di conversione alla religione islamica, che, se rifiutate, facevano lievitare il prezzo del riscatto. Inoltre, il comandante del Dauphin forniva importanti informazioni sul modo di pensare degli algerini e dei loro governanti: “Mi sia consentita la libertà di osservare [...] che non si può trattare alcun affare importante in questo paese, senza prima corrompere i funzionari”.
Negli anni convulsi di fine secolo, gli Stati Uniti vissero una situazione ambigua nei confronti degli Stati nordafricani, finendo per trasformarsi anch’essi in un paese tributario e “sottomesso” alla reggenza algerina, la più potente di tutte. I complicati rapporti internazionali del tempo mettevano completamente in discussione il quadro delle “relazioni amichevoli” con quel “candid world” che gli americani stavano faticosamente cercando di costruire. Insomma, il contesto internazionale era sostanzialmente “uncandid”, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti, che stavano acquisendo una fisionomia del tutto originale sul piano istituzionale, completamente estranea alle logiche monarchico-assolutistiche del tempo.
Le prime relazioni internazionali americane con i Barbary States andavano, dunque, a confliggere con la difesa degli interessi commerciali di Spagna, Gran Bretagna e Francia, nazioni abituate alla doppiezza diplomatica e pronte a remare segretamente contro qualunque possibilità di futuro sviluppo economico degli Stati Uniti. In tale contesto, gli americani furono costretti ad accettare la firma di un trattato con Algeri, il 5 settembre del 1796, dietro il pagamento di 585.000 dollari, di un’annualità e di doni due volte all’anno al dey algerino. Anche con la reggenza tripolina la trattativa per un accordo fu abbastanza complessa e spesso inficiata dalle relazioni competitive inter-barbaresche e dalla convinzione che “i trattati dovessero essere rispettati soltanto finché ve ne fosse la convenienza”.
Ma fu proprio uno dei tanti atti di pirateria contro gli americani, ancora una volta “gestito” dal dey algerino, a portare gli Stati Uniti dalla fase di negoziazione dei trattati a quella della gunboat diplomacy nelle acque del Mediterraneo. Nell’ottobre del 1800, il capitano del mercantile armato statunitense George Washington, attraccato al porto di Algeri, dove aveva sbarcato i tributi per il dey, fu da questi costretto ad alzare sull’albero maestro la bandiera algerina e a trasportare a Costantinopoli un ambasciatore e dei doni per il sultano Selim III. Ma, questa volta, la prepotenza algerina si tradusse in una mossa vincente per gli Stati Uniti, che ottennero dalla Sublime Porta un firmano, con il quale poterono reagire con orgoglio all’umiliazione subìta. Jefferson, divenuto presidente, accantonò l’idea di una “conversione commerciale” dei pirati barbareschi e si decise ad imprimere una svolta alla politica statunitense nel Mediterraneo.
Dopo quattro spedizioni belliche contro Tripoli, nella seconda delle quali ci fu un attacco da terra da parte dei marines, la città fu assediata finché il bey non liberò gli ostaggi e firmò un trattato di pace. Le successive barbary wars del 1815 stroncarono definitivamente gli attacchi corsari contro le navi mercantili americane e la percezione delle potenze europee nei confronti degli Stati Uniti cominciò a modificarsi positivamente. Da quel momento, le bandiere a stelle e a strisce sventolarono sul primo monumento bellico commemorativo costruito ad Annapolis e l’inno dei marines “To the shores of Tripoli” divenne familiare a tutti gli americani.