Si fa avanti Kudrin, l'arma di Putin per ricucire con l'occidente
Milano. Qualcuno spera già che sia entrato in azione il “piano K”, secondo la teoria che vorrebbe usare Alexey Kudrin come una cartina di tornasole per presagire una svolta del Cremlino, addirittura una “perestroika”, parola che l’ex ministro del Tesoro russo è tra i pochi a osare pronunciare a Mosca. Quanto sia importante questo pietroburghese biondo con gli occhiali da professore e l’espressione severa lo si deduce anche dal fatto che ogni anno, durante la diretta tv del presidente, a Vladimir Putin viene domandato se Kudrin tornerà nel governo, e ogni anno – l’ultima volta due settimane fa – Putin risponde che ne sarebbe felice. Si tratta di un segnale in codice, anche all’occidente, dove Kudrin è ben visto, dopo aver tenuto per undici anni stretti i cordoni della borsa russa ed essersi dimesso cinque anni fa, opponendosi all’aumento delle spese militari. Un amico dei dissidenti, un austero, un liberale, una colomba, il moderato che tutti vorrebbero al Cremlino ha fatto il primo passo per avvicinarsi: è stato nominato viceresponsabile del Consiglio economico presso la presidenza, dopo essere stato eletto direttore del Centro di elaborazioni strategiche, un think tank di liberali istituzionali.
Gli ottimisti, come il Moskovsky Komsomolez, parlano già di un’imminente nomina di Kudrin a premier dopo le presidenziali del 2018. I pessimisti, come il Moscow Times, notano che il Consiglio economico è soltanto consultivo, non si è mai riunito in due anni di crisi, e servirà a illudere chi continua a sperare in una svolta liberale di Putin al diciottesimo anno di governo. Ma potrebbe significare qualcosa di più di una mossa per cambiare gli equilibri nell’establishment (si parla di un ulteriore declassamento dell’ex presidente Dmitri Medvedev, da premier a speaker della Duma).
Pochi giorni fa un gruppo di nazionalisti con uniformi sovietiche della Seconda guerra mondiale ha aggredito a Mosca la scrittrice dissidente Liudmila Ulitskaya, cospargendola di “zelionka” (un mercuriocromo verde, indelebile) e insultandola come “nazional-traditrice”. A sorpresa l’episodio è stato condannato con toni durissimi – “una vergogna, inammissibile” – dal portavoce di Putin, Dmitri Peskov. Mai prima d’ora i “patrioti” erano stati sgridati per eccesso di zelo. La propaganda da mesi ignora l’Ucraina, e nell’ultima diretta tv Putin ha usato toni smorzati rispetto a quando la Crimea era stata appena annessa e il petrolio costava più di 100 dollari il barile.
La Commissione europea ha appena rivisto in peggio le proiezioni sulla recessione russa, e Kudrin con il suo rigore non serve solo all’immagine: incombe l’aumento dell’età pensionabile, e perfino i think tank statali temono una “stagnazione secolare”. L’ex ministro non nasconde il pessimismo, invoca riforme strategiche e vuole ricucire con l’occidente, mentre l’Ue tra poche settimane dovrà decidere se prorogare le sanzioni. Le elezioni alla Duma, a settembre, rischiano di sfociare in un’esplosione di scontento popolare, mentre le élite discutono scenari finora indicibili. Il politologo Nikolay Petrov ha pubblicato con l’European Council on Foreign Relations un saggio dal titolo “Putin’s Downfall”, con il lapidario incipit: “L’attuale regime non durerà a lungo”. La previsione contempla due scenari: un “regime change” con collasso totale, o una specie di “perestroika” preventiva, lanciata dalle oligarchie stufe di non poter viaggiare in Europa. Potrebbe essere guidata dallo stesso Putin, cambiando parte del suo team, oppure – “scenario più realistico” – saranno le élite putiniane a sostituire il leader, un colpo di palazzo modello Krusciov. Che però era impopolare, mentre oggi il sistema ruota sull’immensa popolarità di Putin. Così molti preferirebbero una transizione soft, magari con il volto di Kudrin.