Il candidato
Trump sbaraglia quel che rimane del Gop e conquista la nomination
New York. “La battaglia per la nomination del 2016 è finita, la battaglia per l’anima del partito repubblicano è appena iniziata”, ha scritto Bill Kristol nel giorno in cui il partito si è trovato di fronte alla candidatura di Donald Trump come realtà ineluttabile. I vertici del Gop lo hanno formalizzato come candidato “presumptive” del partito e il ritiro di Ted Cruz è la tomba delle speranze di disarcionare in qualche modo l’inarrestabile Trump. Anche John Kasich, per qualche motivo ancora in corsa, ieri ha deciso di ritirarsi. Ma la battaglia per l’anima segnalata da Kristol è più ampia della querelle fra Trump e anti Trump. Si tratta del rifiuto, da parte degli elettori, di un modello repubblicano che il columnist Ross Douthat chiama il “vero conservatorismo”, composto ideologico fatto di libertà individuali, stato ridotto al minimo, mercato libero, esportazione di quei valori universali che fanno dell’America un esperimento eccezionale, non una nazione fra le altre.
Finché ha potuto, Cruz è rimasto nella corsa come rappresentante dei “veri conservatori” che in tempi di persuasioni libertarie hanno flirtato con l’ethos del Tea Party, ma è stato infine sbaragliato da un fenomeno senza precedenti che nel suo primo discorso da candidato “presunto” ha attaccato Hillary Clinton sugli accordi di libero mercato e si è scagliato contro il Nafta. “La nomina di Trump è in sostanza la prova che sconfessa la teoria dei ‘veri conservatori’”, conclude Douthat.
Anche la vena protezionista e nazionalista che sconfessa la filosofia conservatrice prevalente – prevalente a questo punto forse soltanto in una élite, a giudicare dalle decisioni degli elettori – è parte del patrimonio genetico della destra americana, ma si tratta di geni recessivi che per generazioni non hanno mostrato all’esterno i loro caratteri. “Per la prima volta nella storia recente, uno dei due partiti nominerà una persona contraria alla globalizzazione e al libero commercio. Di rado, nella storia della democrazia, un partito radicato ha cambiato la sua visione del mondo in maniera tanto repentina”, ha scritto Edward Luce del Financial Times. E’ questa inversione filosofica che suggerisce a un manipolo di oppositori di Trump di non allinearsi, nemmeno sotto le insegne di “Never Clinton” che stanno faticosamente unendo i ranghi riottosi del partito. Bobby Jindal, governatore della Louisiana, ha fatto da apripista ai conservatori che obbediscono turandosi il naso. Dall’altra parte, il senatore Lindsey Graham parla di “distruzione del partito”, mentre il collega Ben Sasse, dice che non voterà né Trump né Hillary. Michael Reagan, figlio di Ronald, ha preso atto della fine di un’epoca: “Non è più il partito di Reagan, ma è il partito di Trump”.