2016 fuga da Mosul
L’offensiva punta verso Mosul, la capitale di fatto dello Stato islamico in Iraq, e i civili approfittano di ogni chance per scappare e saltare il fossato, alla lettera. “Ora l’erba è alta a causa della primavera e nasconde i movimenti quando fa buio come non succede durante il resto dell’anno”, dicono i combattenti curdi al Foglio dall’altra parte del fossato. “Gli aerei americani hanno distrutto un ponte sul fiume Tigri laggiù e gli uomini dello Stato islamico adesso devono scegliere, non possono più andare avanti e indietro con la stessa facilità di prima. Quando stanno da questa parte del fiume sanno che è più dura tornare alle loro basi sull’altra sponda e quindi sono più cauti negli inseguimenti dei fuggitivi. E i bombardamenti con gli aerei e l’artiglieria li tengono occupati, quando ci sono i bombardamenti la gente fugge”.
Poco dopo le due del mattino arrivano in quattro. Sono ragazzini di sedici anni, sbucano dalla vegetazione come animali notturni. I curdi in cima alla trincea di terra gli gridano di fermarsi e di levare le magliette, controllano che non siano attentatori con le cinture esplosive. Poi li fanno avanzare uno per volta, con le mani in alto fino al fosso davanti alla trincea e li fanno stare così. Gridano domande in arabo, ascoltano e pesano le risposte. E’ una guerra civile in cui tutti hanno familiarità con gli stessi posti e le stesse persone, più o meno ci si intende anche se i ragazzini vengono da due anni di occupazione militare da parte dello Stato islamico – cominciata nell’estate 2014, quando il gruppo dilagò nella regione di Mosul. Finite le domande trabocchetto per smascherare impostori se ce ne sono, un peshmerga scende la ripa di terra, attraversa il fossato, raggiunge i quattro, li perquisisce, ne sceglie uno e torna con lui cento metri indietro, sul limitare del buio, a recuperare le magliette. Decine di peshmerga osservano con le armi imbracciate. I ragazzini scendono nel fosso e afferrano le mani dall’altro lato, un curdo apre un pacchetto e offre, la prima cosa che fanno è mettersi in bocca le sigarette vietatissime nello Stato islamico. Hanno un sorriso da un orecchio all’altro, sono partiti alle otto da Qayyara, una delle roccaforti storiche del gruppo islamista a sud di Mosul (la battaglia per prendere la loro capitale passerà per Qayyara, chissà quando). “Stavamo per sparare – dicono i curdi – abbiamo l’ordine di sparare a chiunque al di là del fossato senza dover dare spiegazioni, ma ci tratteniamo perché sappiamo che quasi ogni notte ci sono fuggitivi in arrivo”. Uno dei ragazzini ha in tasca un foglietto con un numero di telefono, è uno zio che vive da tempo da questa parte della linea di divisione. Potete chiamarlo adesso. Non abbiamo i telefonini. Come mai, li avete persi? No, ce li hanno levati da tempo, dove eravamo tolgono i telefonini. Il comandante dei curdi chiama lo zio per avere altre informazioni su chi sono i ragazzini, poi passa il telefono.
Caricati su un pickup dai curdi, i quattro sono portati verso una piccola base che affaccia sulla trincea per essere interrogati dall’intelligence. Di chi è stata l’idea di scappare? Uno di loro alza le braccia in trionfo. Come avete deciso il momento della fuga? “Alla preghiera del tramonto, quando sapevamo che gli uomini dello Stato islamico sarebbero stati distratti – risponde al Foglio – alle otto di sera”. Dalle otto alle due, circa sei ore. Come avete fatto ad attraversare il fiume Tigri? “Abbiamo rubato una barca e abbiamo pagaiato con le mani fino all’altra riva. Ma loro stanno scavando una trincea vicino al fiume per impedire alla gente di scappare”. Lo Stato islamico manda ronde di terra a intercettare i fuggitivi, altre volte spara con l’artiglieria su di loro. E se vi prendevano? “Ci uccidevano”. Le vostre famiglie sapevano che volevate uscire di nascosto dallo Stato islamico, vi hanno aiutato in qualche modo? Sono attorno a un tavolo, bevono tè. “No, ci hanno ostacolato. Temevano che saremmo fuggiti, lo avevano capito e ci avevano nascosto le carte d’identità, ma siamo andati via lo stesso”.
Una sentinella curda sulla linea del fronte verso Mosul, con una mitragliatrice fornita dai governo tedesco. (foto Daniele Raineri)
Dall’altro capo del tavolo un ufficiale dell’intelligence curda mostra su un iPad una mappa satellitare – niente di sofisticato, è Google maps – e si fa indicare le case che hanno lasciato. Non riesci a trovare casa tua? Guarda meglio. I ragazzini si concentrano come se fosse un gioco. Qualcuno di voi ha parenti che fanno parte dello Stato islamico? “Sì, mio fratello maggiore”.
C’è da immaginarselo come appare dall’alto questo gioco di guardie e ladri sulla linea militarizzata che fa da avanguardia della campagna per conquistare Mosul – prima o poi, non si sa bene quando. I droni della Coalizione tengono i campi sott’occhio per controllare ogni spostamento di truppe e dare l’allerta e sotto i curdi hanno un sistema Flir, un visore a infrarossi piazzato in alto e collegato a un laptop, che scruta tutti i movimenti nell’oscurità. Lo spostano di torretta in torretta, ogni notte una postazione diversa per coprire quanto più spazio possibile. Lo mostrano con orgoglio al Foglio, lo ha comprato un comandante curdo con i suoi soldi. Ha un sensore di movimento che stringe lo zoom in automatico su movimenti che l’occhio umano non riesce a percepire. Lo schermo fissa la prateria in mille tonalità di grigio, per tre chilometri: “Non si vedono, ma ci sono avvallamenti abbastanza profondi da nascondere uomini”, spiegano i curdi. Ecco la sagoma di un coniglio bianco accecante zampettare da un lato all’altro dello schermo. Il sistema serve per scoprire i sabotatori dello Stato islamico che strisciano verso la trincea, come hanno provato a fare in tre la settimana scorsa. Più spesso osserva i rifugiati che provano la traversata della terra di nessuno. A volte i jet della Coalizione fanno passaggi radenti sopra i civili in fuga come deterrenza contro le squadre degli inseguitori, perché a scappare non ci sono soltanto ragazzini sedicenni, ma file vulnerabili di vecchi, donne e bambini.
Quattro ragazzini fuggiti dallo Stato islamico sbucano dal buio, senza maglietta per mostrare che non hanno cinture esplosive. (foto di Daniele Raineri)
Parrebbe, questa fuga dallo Stato islamico verso la trincea illuminata dei temuti peshmerga, un segno di collasso per l’utopia califfale. Se pure i ragazzini, i più facili da eccitare e persuadere, loro che sono il target prediletto di quei video tutti sangue e raffiche che circolano su Internet, gli ingenui che da sempre restano attaccati a difendere le ideologie morenti anche quando i più grandi hanno capito e abbandonano l’ultimo bunker, se pure loro considerano più figo saltare il fosso, che ne sarà dello Stato islamico? E’ invecchiato così presto, in Iraq, sconfitta dopo sconfitta, bombardamento dopo bombardamento? I ragazzini sanno qualcosa che ancora l’occidente non sa, perché è tardo a muoversi e ha scoperto la minaccia soltanto di recente e di soprassalto, perché è stato colpito nelle sue capitali? Parrebbe così, e invece no. I curdi mugugnano che la gente di Mosul e paraggi sta scappando adesso soltanto perché sente l’avvicinarsi del fronte, dell’artiglieria, fugge con l’intuito di un animale davanti a un incendio, ma non lo avrebbe fatto – e non lo ha fatto negli anni scorsi. Alla domanda “Perché siete scappati?” i ragazzini rispondono che la vita a Qayyara si era fatta impossibile. Tipo? “Lo zucchero è raddoppiato di prezzo, i pomodori costano tre volte tanto”.
Segue dibattito notturno. I ragazzini parlano anche delle decapitazioni per testimonianza diretta, ma dopo essere scappati dal gruppo islamista più feroce della storia si può addurre come motivo l’inflazione da guerra? C’è chi dice che non è il caso di fare troppo gli schizzinosi, la gente mangia pomodori per vivere, se il prezzo triplica è un problema materiale. Chi voleva come risposta qualche perla immediata sulla malvagità dell’islam militante e l’intriseca necessità storica di passare a un modello politico libero, almeno qui e questa notte dovrà aspettare. Il comandante dell’avamposto curdo, Mahdi Bradosty, racconta che era a Mosul durante la caduta della città. Dice che la loro base era in una fattoria poco fuori, e che il padrone di quella fattoria parlava dello Stato islamico “come di una banda di angeli, e tutti sapevano che stava arrivando”. Un mese dopo la ritirata dei soldati e la presa di Mosul, Bradosty telefonò all’ex padrone di casa: “Aveva già cambiato idea, avevate ragione voi mi disse, ma ormai era troppo tardi”.
I combattenti curdi hanno scavato una trincea per decine di chilometri a est di Mosul e lì si sono attestati. Di solito nelle operazioni militari ci si ferma in prossimità di qualche ostacolo naturale, si sceglie il crinale di una collina, la riva di un fiume, anche soltanto un dislivello. Invece i peshmerga hanno obbedito all’ordine del loro governo, si sono fermati in mezzo alla pianura e hanno creato una linea difensiva in mezzo al nulla: gli americani la chiamano Flot, Forward line of troops, linea avanzata delle truppe, con il loro gusto per le sigle. Una trincea di due metri, la montagnola di terra di scavo dietro, e piantati a intervalli regolari pali di legno con i neon puntati verso est. “E’ la nostra muraglia cinese”, ride il generale Haji Zebari, che comanda questo settore di sicurezza (il cosiddetto Numero Sei). Dice che il fossato è stato scavato in mezzo all’erba seguendo un criterio soltanto: deve contenere tutti i villaggi abitati in maggioranza da curdi. Quindi è fatta per restare, non è una fortificazione contingente, scavata per bloccare i camion bomba, è la linea di confine del futuro Kurdistan? “Sì. E’ lunga mille chilometri, con un fortino ogni chilometro e circa quindici sentinelle per ogni fortino. Gli uomini hanno turni di guardia di dieci giorni e poi stanno cinque giorni a casa”, spiega il generale (oppure a guidare taxi, come fanno molti peshmerga fuori dai turni per integrare lo stipendio) . Quindi non importa se dall’altra parte c’è lo Stato islamico o la Cina, questa linea di confine è una dichiarazione politica? “No, importa eccome. Dall’altro lato ci sono terroristi, è per questo che siamo tutti qui in trincea”.
La Flot curda è diventata con la sua fila di luci la linea del traguardo per i civili che scappano dallo Stato islamico. Altre volte diventa la piattaforma di fuoco contro gli assalti stolidi dello Stato islamico. “Sembra di giocare alla playstation – spiega al Foglio un soldato – Arrivano a gruppi di quindici, vanno avanti sparando e correndo, correndo e sparando, finche non li hai buttati tutti giù. Quando li hai uccisi tutti, spunta un altro gruppo e si ricomincia. A volte attraversano il terreno scoperto tutti assieme sotto un telo, per ingannare gli aerei. Quando sentono il jet in avvicinamento, si accovacciano e visti dall’alto sono indistinguibili dal terreno attorno. Poi ricominciano a marciare verso la trincea. Due settimane fa ne abbiamo ammazzati settanta in una notte di combattimenti. Io stavo alla Dushka (la mitragliera sovietica da 14,5 millimetri, un calibro pesante progettato per sparare agli aerei): fumavo dal narghilè e sparavo, una boccata e sparavo, un’altra boccata e avanti così per tutto il tempo. Se ci dessero il permesso, basterebbe un battaglione di peshmerga a ripulire tutti i villaggi qui davanti dallo Stato islamico”.
La sigaretta dopo il traguardo (foto di Daniele Raineri)
Lo Stato islamico tenta di rompere questa liena d’assedio. Martedì all’alba ha lanciato un’operazione ambiziosa per sfondare a Tel Skouf, un villaggio cristiano a meno di trenta chilometri da Mosul, ha attaccato con camion bomba e con soldati a piedi, almeno trecento, ha preso il controllo della trincea per tre ore, gli americani hanno mandato anche una forza di reazione rapida con forze speciali, un soldato dei Navy Seal è morto, ucciso dietro a uno di quei finti Suv civili bianchi con le porte corazzate che usano per spostarsi sulle strade sterrate che collegano le loro tre basi da queste parti. Una è dentro il comando generale di Ninive – che è la provincia che ha per capoluogo Mosul – e all’interno della base ti può capitare di incontrare ufficiali della Decima Divisione, con il logo delle sciabole incrociate sulla manica. Un’altra, con i marines, è ai piedi del crinale roccioso che separa la prateria spartita a metà con lo Stato islamico dalla zona assai più tranquilla di Erbil, che sta verso est. A quella base non ci si può avvicinare, ma è facile individuarla perché è da lì che partono i colpi di artiglieria che scavalcano il cielo soprai curdi e atterrano nei villaggi occupati dallo Stato islamico un paio di chilometri oltre il fossato. Una terza base, non lontana dalle altre due, è all’interno della caserma di un corpo speciale dei peshmerga, le “Black Tiger”, che infatti si chiama Camp Black Tiger. La base delle forze speciali americane nascosta lì dentro è conosciuta come Camp Blackbeard.
Martedì mattina per bloccare lo sfondamento dello Stato islamico e riprendere il controllo del fronte gli aerei americani hanno fatto 31 sortite, con undici aerei e due droni. Anche i due elicotteri che sono venuti a prendere il morto e i feriti sono stati colpiti dal fuoco delle armi leggere, ma alla fine il tandem curdi più americani a terra e jet in aria ha bloccato il raid. Lo Stato islamico aveva dedicato quell’operazione, come sempre fa nelle occasioni più importanti, a un suo leader ucciso dagli americani a marzo in Siria, Abu Ali al Anbari. Si capisce quanta speranza il gruppo riponesse in questo raid dal fatto che Anbari era uno degli uomini più importanti di sempre nella sua storia, fin da prima dell’attuale leader, Abu Bakr al Baghdadi. Quando i primi islamisti che poi fonderanno al Qaida in Iraq erano ancora fermi tra le montagne curde prima del 2003 e c’erano ancora Saddam Hussein e la no fly zone americana, Anbari era già un capo tra loro. Il termine “numero due” è abusato, ma se c’era qualcuno che aveva accesso diretto a Baghdadi era lui.
Eppure l’offensiva che porta il suo nome si è spenta in fretta. Si dice che gli islamisti avessero preparato quaranta camion bomba, ma che non siano riusciti a lanciarli e due giorni fa i curdi di Tel Skuf hanno fatto girare su Internet un video in cui un caterpillar rovescia su un prato decine di corpi di combattenti nemici uccisi durante l’attacco. C’è la tentazione di credere che lo Stato islamico si getti in queste offensive perché è disperato, ma un conto è la traiettoria generale – che vede il fronte avvicinarsi a Mosul – un conto è quello che succede giorno per giorno. Senza l’aviazione, i curdi non avrebbero retto e chissà cosa sarebbe successo a Tel Skouf e ai sui civili cristiani. Il corpo è debole, ma è capace ancora di tirare zampate pericolose, vicino Mosul e anche in occidente.