Un musulmano a Londra
La vittoria di Kahn non salva il Labour da una “fantastica” catastrofe
Londra. A un certo punto è anche riuscito a usare l’aggettivo “fantastico” per definire il risultato delle elezioni, il segretario del Labour Jeremy Corbyn, il cui successo più concreto finora è aver perso meno seggi del previsto in una giornata catastrofica. Neppure la vittoria di Sadiq Khan a sindaco di Londra è riuscita a ridare lustro alla sua leadership. Al termine di una campagna scaltra rinvigorita dalle debolezze strutturali dell’avversario conservatore, Zac Goldsmith, Khan ha ottenuto circa il 44 per cento dei voti ma, come scriveva perfido Nicholas Watt della Bbc, aveva già escluso di voler festeggiare un’eventuale vittoria con Corbyn, e come durante la campagna si era guardato dal coinvolgerlo troppo. E infatti ha vinto, anche grazie all’abilità con cui ha schivato lo scandalo sull’antisemitismo scatenato da un consigliere comunale musulmano e dall’ex sindaco Ken Livingstone, che ha fatto perdere una circoscrizione a forte presenza ebraica, Havering and Redbridge. Se in Inghilterra il Labour scampa la catastrofe e in Galles rimedia una retrocessione non ancora allarmante, la Scozia mostra l’entità del disastro.
Il Labour ha perso 13 seggi e i Tory sono resuscitati da una lunga fase di inesistenza diventando il principale partito d’opposizione a Holyrood, sebbene lo Scottish National Party (Snp) di Nicola Sturgeon, con 63 seggi, non sia riuscita a raggiungere i 65 seggi necessari per governare da sola. Va ricordato che in Scozia il Labour è stato il primo partito dal 1964 al 2015, con vette raggiunte ai tempi di Gordon Brown, prima di essere asfaltato dall’Snp e che proprio la riconquista scozzese era stata una delle missioni che Corbyn si era dato. Il bilancio è facile e amaro e lo ha tracciato l’unico deputato laburista scozzese rimasto a Westminster, il ministro ombra per la Scozia, Ian Murray: “Non penso che il pubblico veda il Partito laburista guidato da Jeremy Corbyn come un futuro partito credibile per il governo del 2020”, ha detto a Bbc4, prima di suggerire misericordiosamente un ripensamento della “strategia e della narrativa” del partito.
Soddisfatto per aver perso solo una trentina di seggi nei consigli regionali invece dei 150 previsti, Corbyn ha ammesso che il partito ha “molto lavoro da fare” e a chi gli chiedeva se si sarebbe dimesso ha detto “vado avanti, non vi preoccupate”, mentre il suo cancelliere ombra-guardaspalle John McDonnell intimava ai critici del partito di “adeguarsi o tacere” una volta per tutte. Più ancora del referendum del 23 giugno sull’Unione europea, l’appuntamento del 5 maggio era visto come la prima occasione per fare una valutazione del Labour post milibandiano e corbyniano e venerdì non c’era commentatore o analista che avesse previsioni meno che fosche per il partito. In molti hanno parlato apertamente del loro disagio mentre altri, come Andy Burnham che pensa di correre come sindaco di Manchester, hanno lasciato trapelare l’intenzione di rifarsi una vita. In un contesto fluido in cui anche i defunti Lib-Dem hanno dato timidi segnali di ripresa e Ukip, altro partito uscito relativamente male dalle elezioni del 2015, ha rosicchiato via al Labour 7 seggi all’Assemblea gallese, in molti nel partito stanno iniziando a ragionare sul dopo Corbyn: le condizioni ci sarebbero tutte, se solo non mancasse, dolorosamente, un candidato alternativo.