Meritiamo di più. Il rifiuto da 815 milioni di dollari nei media americani
Milano. Ottocentoquindici milioni di dollari per comprarci? Non bastano. L’offerta-che-non-si-può-rifiutare è stata rifiutata, e oggi gli esperti dicono che il rifiuto era atteso, ma non è del tutto vero. Noi saremo anche un po’ provinciali in questa fetta di mondo in cui i media soffrono parecchio, ma quando un editore di giornali, il più grande d’America in termini di copie distribuite, offre un cifra di questo genere a un gruppo molto più piccolo che ha più volte rischiato di chiudere, ci aspettiamo feste e champagne. Non siamo più negli anni Ottanta e Novanta, quando si temevano agglomerati mediatici troppo grossi, abusi di potere dominanti e colossi inossidabili e potenti: oggi il mondo dell’editoria punta alla sopravvivenza, e spesso anche quella è negata (ieri nel Regno Unito ha chiuso un giornale lanciato nove settimane fa, per dire). Eppure è andata proprio così, mercoledì notte è arrivata la risposta fiera dei piccoli: no, il prezzo è basso, non ci svendiamo per così poco.
Un paio di settimane fa Gannett, che pubblica un centinaio di testate tra cui il popolare Usa Today, aveva offerto 815 milioni di dollari (12,25 dollari ad azione più l’assunzione del debito) alla Tribune Publishing, che edita tra gli altri il Los Angeles Times e la Chicago Tribune, concedendo “un premio significativo”, ha scritto il New York Times, pari al 44 per cento, rispetto al valore in borsa dell’azienda. L’offerta non era stata, come si dice, sollecitata dalla Tribune, che nonostante abbia perso il 62 per cento del suo valore dal 2014 a oggi tiene molto alla propria indipendenza. L’acquisizione della Tribune è sulla bocca di tutti da mesi: pare che avesse fatto un’offerta Rupert Murdoch, che non è mai stata confermata. Ma proprio il tycoon di News Corp. alla fine dell’anno scorso aveva fatto un tweet esplosivo cinguettando che una grande azienda di Wall Street stava per comprare la Tribune e che il Los Angeles Times sarebbe andato al filantropo miliardario Eli Broad. La Tribune negò subito la vendita e liquidò il tweet come una “speculazione mediatica” piuttosto fastidiosa, ma se in effetti la vendita non c’è stata, citare il nome di Broad allora era un colpo al cuore (c’è un motivo per cui il soprannome di Murdoch è “lo Squalo”): proprio su un’offerta di Broad, di cui non si conoscono i dettagli, si era spaccata la direzione della Tribune, e il ceo del Los Angeles Times, Austin Beutner, era stato allontanato senza troppi convenevoli.
Quando è arrivata l’offerta di Gannett, gli esperti hanno iniziato a dire: questa è la volta buona. Ma fin da subito la Tribune ha risposto con prudenza, quasi indispettita, anche se il suo titolo ha iniziato a risalire in Borsa dopo un andamento deludente. Il presidente della Tribune, il tosto Michael Ferro da poco a capo del gruppo, ha rilasciato nei giorni successivi all’offerta un’intervista furiosa, in cui diceva che Gannett stava cercando “di rubare l’azienda” con’un azione “assolutamente poco galante”. I signori non fanno così, in questo settore, sosteneva Ferro, che da quel momento ha fatto di tutto per respingere le avances non richieste, e soprattutto il tentativo da parte di Garnett di intromettersi nei voti del board della Tribune. In realtà Ferro era molto sotto pressione internamente: come si fa a dire di no?, chiedevano gli investitori. Da Garnett, con finta eleganza, si limitavano a far sapere di essere in attesa di una risposta in tempi brevi, ché certe proposte non sono eterne: come direbbe Bobby Axelrod della serie tv “Billion”, “conto fino a cinque e poi l’offerta non è più sul tavolo”. La Tribune ha così annunciato il suo rifiuto, ci meritiamo di più, e ha lanciato un nuovo piano di organizzazione: la compagnia sarà riorganizzata in tre gruppi e il Los Angeles Times si “espanderà globalmente” con uffici di corrispondenza in sette paesi e una strategia di partnership con altre aziende editoriali in nuovi mercati. E ancora non si sa chi, in questa storia, sia stato incosciente.