Il fondatore di Human Rights Watch prende a schiaffi le ong dei diritti umani
Roma. Cosa hanno in comune gli americani William Faulkner e Toni Morrison con il russo Andrei Sacharov e il cinese Harry Wu? Sono stati tutti pubblicati da Robert Bernstein durante i suoi venticinque anni alla guida della Random House, la più grande casa editrice americana. Ma questo prima che Bernstein facesse conoscere in occidente la vita e le opere di Jacobo Timerman, Natan Sharansky e Václav Havel, per citare alcuni dei più grandi prigionieri politici del Novecento. Adesso Bernstein, a novantatré anni, se ne esce con un libro di memorie, “Speaking Freely”. Emerge un gigante del secolo scorso, a proprio agio con Truman Capote e i funzionari sovietici cui chiedeva un po’ di libertà per i propri assistiti. Bernstein ha fondato Human Rights Watch, una delle più influenti e importanti organizzazioni dei diritti umani. Aveva già alle spalle una vocazione editoriale umanitaria. Era stato lui a portare in America “Prisoner Without a Name, Cell Without a Number”, le memorie dal carcere di Jacobo Timerman, il direttore dell’Opinión torturato dalla giunta argentina. Bernstein fece la storia dei dissidenti russi che per anni lottarono contro l’oscurantismo comunista.
L'editore e fondatore di Human Rights Watch Robert Bernstein
Nel libro, Bernstein racconta che “i diplomatici europei non volevano parlare di diritti umani con i russi”. Si convinse così dell’importanza di sostenere coloro le cui voci erano soppresse nei gulag e nei manicomi, mobilitando autori del calibro di Robert Penn Warren e Arthur Miller. Durante un incontro con Mikhail Gorbaciov nel 1987, Bernstein chiese al premier sovietico quando avrebbe scarcerato gli scrittori il cui “crimine” era di parlare liberamente. Gorbaciov era indignato che un ospite fosse così sfacciato, rovinando l’atmosfera accogliente di quell’incontro altrimenti perfettamente inutile e di facciata.
Mikhail Gorbaciov
Ma Bernstein non ha cessato di essere un dissidente una volta che la lotta sovietica si è conclusa. E ora nel libro accusa apertamente l’organizzazione che ha fondato, Human Rights Watch, e altre ong dei diritti umani, di essere un cavallo di troia dell’islamismo e dei regimi autoritari. Scrive Bernstein che “c’è pressione in queste organizzazioni a ricevere l’attenzione dei media” e questo porta a individuare il capro espiatorio più prelibato. “Ogni guerra in cui Israele è coinvolto riceve più attenzione dalle organizzazioni dei diritti umani rispetto agli orribili conflitti nella Repubblica democratica del Congo e in Sudan”, scrive Bernstein. “Mentre Human Rights Watch chiedeva ad Hamas di fermare i bombardamenti, la ong poneva maggiore enfasi nel denunciare il blocco israeliano di Gaza”.
Bernstein ne ha anche per “le commissioni dell’Onu che raramente hanno l’aspetto neutrale” e con le ong che confondono le dittature con le società aperte, le democrazie “che hanno meccanismi di auto-correzione” che le prime non hanno. Un genocidio in medio oriente non può ricevere la stessa attenzione di Guantanamo e Abu Ghraib. La conclusione è tragica: “Human Rights Watch e altre organizzazioni dei diritti umani sono usate come armi di propaganda dagli autocrati dei paesi arabi”. A novantatré anni, Robert Bernstein non ha ancora perso lo smalto che mostrò in quel piccolo appartamento nel cuore di Mosca, dove ospitava gli scrittori del dissenso e da cui aiutò a far cadere la cortina di ferro. Con una macchina da scrivere.
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