La controffensiva dei regimi
Il “soft power” non è un’esclusiva dell’occidente, anche i regimi autoritari hanno affinato un’arte geopolitica soft, “competono seriamente su questo terreno”, lo stanno conquistando, a modo loro. E’ questa la tesi contenuta in “Authoritarianism Goes Global”, un saggio a più voci pubblicato di recente dalla Johns Hopkins University Press e concepito dal mondo che gira attorno al Journal of Democracies, una pubblicazione che analizza lo stato della democrazia – e la sua difesa – a livello mondiale. L’autoritarismo è diventato globale, dicono gli autori, ma non si presenta più soltanto a livello militare: i regimi stanno sviluppando in modo più raffinato strategie di conquista di cuori e menti.
Qualche giorno fa, Andrew Kramer ha raccontato sul New York Times come è stato invitato e ricevuto al concerto diretto da Valery Gergiev a Palmira, organizzato dai russi tra le rovine della città strappata allo Stato islamico. Il ministero degli Esteri russo ha telefonato a Kramer: tieniti pronto a partire per la Siria in pochi giorni. Non possiamo dirti di più, ma c’è un dress code: portati un giubbotto antiproiettile. E’ iniziato così “il tour della battaglia russa per i cuori e per le menti”, scrive il reporter, trasportato in una tenda nella zona di Latakia, in Siria, dove si sono stabiliti i russi – nonostante gli annunci, non sono ancora andati via. Alcune signore di mezz’età hanno servito cibi russi ai giornalisti in arrivo, circa un centinaio, con i soldati in maglietta blu fuori che giocavano a pallavolo, facevano boxe e si mostravano alle telecamere. Un container lì vicino è stato trasformato in una piccola biblioteca che contiene circa duemila libri. Per lo più ci sono saggi militari, ma sono stati portati anche altri titoli, “i funzionari amano la storia – ha raccontato il bibliotecario – i soldati la fantascienza e le donne che lavorano nelle mense be’, vogliono i romanzi”. Un signore si è fatto fotografare nella biblioteca mentre sfogliava con aria interessata un’enciclopedia di medaglie militari russe sotto a una placca di metallo con scritto: “La difesa è un sistema di strumenti politici, economici, sociali, legali e militari”, come a illustrare, scrive Kramer, “il modo moderno della Russia di fare la guerra” – quella che noi chiamiamo guerra ibrida: dissimulazione, forza militare e diplomazia si fondono per dare a Mosca la possibilità di rivendersi come interlocutore credibile nella geopolitica internazionale.
“Molti esperti hanno dato per scontato che la globalizzazione avrebbe dato alle democrazie un grande vantaggio nella sfera del soft power – scrivono gli autori del saggio “Authoritarianism Goes Global”– sostenendo che una politica economica aperta e un flusso ininterrotto di informazioni attraverso i confini avrebbero incoraggiato le società aperte più di quelle represse. Ma gli stati non democratici sono stati molto rapidi a esercitare la loro influenza”. Uno degli autori di “Authoritarianism Goes Global”, Cristopher Walker, vicepresidente del National Endowment for Democracy, ha appena concluso un tour europeo tra Bruxelles e Londra in cui ha raccontato le tesi del saggio a un pubblico che sta vivendo in prima persona molte delle vicende trattate nel libro: a breve si dovrà ridefinire il rapporto con la Russia, allo scadere delle sanzioni, e la relazione con Mosca da anni divide l’Europa in modo drammatico, con le sue ripercussioni dal punto di vista economico, militare e strategico; domani si discute in Europa se conferire alla Cina lo status di economia di mercato, e le fratture europee sono evidenti; l’apertura all’Iran funziona a livello economico, con il segretario di stato statunitense John Kerry che invita gli europei a fare affari con Teheran senza badare troppo alle sanzioni americane, ma dal punto di vista diplomatico e militare gli interrogativi sull’affidabilità degli ayatollah aumentano. Soprattutto: la globalizzazione, diamante del “soft power” occidentale, è ormai considerata un male in buona parte del dibattito politico europeo, i partiti nazionalisti si stanno imponendo sempre più, nelle urne e nel mainstream.
“In questa nuova fase della competizione globale – spiega Walker al Foglio – l’ascesa del potere autoritario è netta nella geopolitica. La Cina ha allargato la propria influenza con le maniere forti nel mar Cinese meridionale mostrando i muscoli nelle isole Spratly e in generale adottando un profilo militare più assertivo nella regione. La Russia, nonostante sia percepita come una nazione economicamente indebolita, ha perseguito con vigore una politica di ‘disruption’: nel giro di due anni, il governo russo ha annesso la Crimea, invaso l’Ucraina e dispiegato nuove risorse militari significative in medio oriente. I bombardamenti russi in Siria, iniziati alla fine del settembre del 2015 in difesa del regime brutale di Bashar el Assad, hanno colto l’occidente di sorpresa, così com’era accaduto in Crimea e Ucraina nel 2014. L’Iran, intanto, ha allargato le sue attività in Afghanistan, Iraq, Libano, e incrementando la propria presenza in Siria, nell’ottobre del 2015, si è schierato con la Russia in una dimostrazione pubblica di solidarietà”.
I regimi si muovono, si posizionano, propongono una loro visione del futuro, e non utilizzano soltanto le maniere forti. Hanno imparato a dialogare con l’occidente, a sfruttare le sue debolezze, ad assecondare alcune delle sue volontà, per non arrivare a una frattura che in questo momento non conviene a nessuno. L’altalenarsi di aperture e chiusure, il via vai diplomatico di poliziotti buoni e poliziotti cattivi, le mani tese e i pugni chiusi, il fascino che soprattutto la Russia esercita su molti partiti nell’Unione europea – tra la sinistra greca di Syriza e quella corbyniana del Labour inglese fino ai nazionalisti del Front national francese, dell’Ukip britannico e della Lega italiana (solo per citarne alcuni) – servono a mantenere un equilibrio globale fragile ma necessario. Il pragmatismo confonde le tracce dell’ambizione autoritaria di molti paesi. “L’utilizzo del potere militare di questi regimi – spiega Walker – è uno dei cambiamenti più evidenti del contesto internazionale. Ma è lo sviluppo del ‘soft power’ l’aspetto più rilevante di questo nuovo autoritarismo”. Anche se, precisa Walker, l’utilizzo del termine “soft power” è una semplificazione: gli sforzi di questi governi autoritari non hanno nulla a che fare con la concezione “che Joseph Nye aveva di questo potere, che enfatizza la capacità degli stati di attrarre altri paesi con la legittimazione delle loro politiche e dei loro valori”.
In una tenda della base russa a Latakia è stato aperto un centro che si chiama più o meno centro di “sfogo psicologico”, i soldati possono andare lì a trovare ristoro. Alle pareti sono appesi quadri di foreste di betulle e di paesaggi innevati che aiutano i soldati russi a dimenticare la Siria: a sentirsi a casa. Mosca non è abituata a combattere guerre lontane dalla terra madre. Il conflitto in Afghanistan fu il primo al di fuori dell’area di influenza sovietica, ma poi la Cecenia, la Georgia e anche l’Ucraina sono state guerre, come dire, interne. La Siria no, la Siria è vissuta come una guerra lontana e così la macchina russa si è mossa per dare una motivazione a questo intervento che vada al di là della manifestazione di forza a uso e consumo dell’occidente. I giornalisti che sono stati invitati da Mosca al concerto di Palmira sono stati accompagnati a visitare il “centro della riconciliazione”, ha raccontato Andrew Kramer, dove decine di funzionari russi ricevono le telefonate di gruppi di combattenti in Siria che vogliono unirsi al cessate-il-fuoco garantito a livello internazionale dalla Russia e dagli Stati Uniti. I russi li aiutano a negoziare tregue a livello locale con l’esercito siriano: “Una televisione a schermo piatto mostra l’immagine di una colomba, di un ramo d’ulivo e della bandiera siriana”. Per mostrare gli sforzi di pace della Russia, il tour prevedeva anche un viaggio a Kawkab, nella provincia di Hama, a circa un centinaio di chilometri da Aleppo e vicino alla linea del fronte. Tra macerie e campi abbandonati, la cittadina sembrava deserta, ma a un certo punto un gruppo di bambini è sbucato dal nulla per accogliere l’autobus, cantando e mostrando poster di Assad. “Ci sono voluti molti mesi alle parti in guerra per arrivare a un tavolo di negoziato, ma finalmente vediamo i frutti di questo sforzo”, ha detto ai giornalisti il portavoce dell’esercito russo, accompagnandoli in seguito a una cerimonia “di pace”, in cui un combattente islamico ha consegnato le armi ai russi e si è fatto prendere le impronte digitali in segno di resa. Il portavoce russo ha spiegato che l’esercito ha assistito a una novantina di cerimonie di questo tipo da febbraio a oggi, riconciliando almeno settemila ex ribelli: questo, non soltanto le bombe, è centrale per i russi, cuori e menti appunto, anche se, come puntualizza Kramer, “non si è capito chi si è riconciliato con chi”.
“La serietà degli sforzi dei regimi autoritari è mostrata dalle risorse che investono – spiega ancora Christopher Walker – la Russia investe decine di milioni di dollari in una rete di iniziative culturali nei paesi confinanti e altri che serve al Cremlino per esercitare la propria influenza. Attraverso organizzazioni come la fondazione Russky Mir (Mondo russo) o la Fondazione per la difesa dei diritti dei compatrioti all’estero, Mosca finanzia molti progetti. I paesi baltici spesso si lamentano delle ingerenze russe nel loro dibattito politico, ma l’influenza si sta allargando a tutta l’Europa, come dimostra la corrispondenza di idee e di finanziamenti con il Front national francese”. Non è soltanto una prerogativa russa: la Cina, che in questi giorni in Europa è sulla bocca di tutti per il suo negoziato con Bruxelles e per le frasi scappate alla Regina Elisabetta II su quanto sono maleducati i cinesi, governa il proprio network di influenza culturale attraverso circa mille Istituti Confucio “embedded” in molte università nel mondo. Come scrive l’esperta di Cina Anne-Marie Brady nel suo saggio contenuto in “Authoritarianism Goes Global”, Pechino spende miliardi in iniziative culturali che servono a influenzare l’opinione pubblica occidentale. La settimana scorsa il governo cinese ha organizzato un evento nelle isole contese, un concerto pop di due ore su una nave con una hit dal titolo “Questo è l’uomo che vorremmo sposare”, una ballata popolare che racconta la storia di un marinaio che rimanda il suo matrimonio perché è impegnato lontano da casa per i suoi doveri nei confronti della patria: alla fine la sua fidanzata arriva sull’isola contesa, e si sposano lì. “La contraddizione su questo fronte non potrebbe essere più chiara – dice Walker – Le autorità in Russia e in Cina reprimono senza tregua le attività di giornalisti e di ong interne, ma al di fuori dei loro confini sfruttano con voracità gli spazi aperti delle democrazie.
Soltanto alla fine del tour “cuori e menti”, che si confonde con la propaganda perché il “soft power” non è interpretato allo stesso modo dalle democrazie e dai regimi, è diventata ufficiale la notizia del concerto a Palmira, organizzato verso l’ora del tramonto, tra le rovine di una città simbolo della civiltà occidentale sfregiata dallo Stato islamico e dalle sue esecuzioni. Prima dell’inizio del concerto dell’Orchestra Mariinsky di San Pietroburgo, intitolato “Una preghiera per Palmira”, da un maxischermo montato tra le colonne è comparso il presidente russo, Vladimir Putin, in collegamento dalla sua residenza sul mar Nero a Sochi, con un messaggio di benvenuto al pubblico – formato soprattutto da soldati russi, da soldati siriani e da bambini vestiti con abiti locali colorati – in cui ha ringraziato chi è morto combattendo il terrorismo islamico, ha augurato “stabilità e speranza” alla Siria, mentre ribadiva le motivazioni del suo “intervento umanitario” contro la devastazione jihadista. Poco più in là, l’Osservatorio siriano registrava un altro bombardamento fatto dall’esercito siriano con la copertura russa, almeno trenta morti. Ma Assad aveva già ringraziato la generosità e il simbolismo di Putin con una lettera in cui prometteva una prossima vittoria ad Aleppo: distruggeremo gli aggressori, ha scritto il rais siriano, come l’Armata rossa ha distrutto le forze naziste a Stalingrado.
“La crescita dell’influenza autoritaria arriva in un momento in cui gli Stati Uniti e l’Europa hanno ridotto le loro ambizioni nel sostegno della democrazia e dei valori che la rappresentano – spiega Christopher Walker – Non ci deve stupire il fatto che la resurrezione autoritaria arrivi nel momento in cui un malessere comune sembra aver contagiato le più importanti democrazie del mondo. Buona parte di questa malattia deriva dalla distruzione di capitale economico concretizzatasi in questi anni, ma le cause sono molteplici e hanno portato a una grande perdita di fiducia da parte dell’occidente”. Commentando il concerto di Palmira sullo Spectator, magazine britannico di stampo conservatore, Ed West ha scritto: “L’evento è stato un esercizio di propaganda, ma che esercizio! Mi viene una grande tristezza a pensare che l’occidente non penserebbe nemmeno a organizzare un concerto così, e questo rivela un grande problema della nostra politica estera: che cosa promuoviamo noi?”. Molti regimi operano in quel che Walker chiama “un ambiente insolitamente permissivo”, in cui nonostante i problemi economici e di corruzione, nonostante la conoscenza di molti meccanismi repressivi, non ci sono reazioni. “Le democrazie – spiega Walker – per sciatteria o per ignoranza, non prendono sul serio la possibilità che i poteri illiberali possano rimodellare a proprio favore l’ordine liberale mondiale del post Guerra fredda ora rimasto senza difese”.
Gli autori di “Authoritarianism Goes Global” offrono qualche proposta per maneggiare il rapporto con i regimi. Sarebbe innanzitutto necessario uscire dalla falsa dicotomia che prevede o l’esclusione dei regimi o il loro coinvolgimento. Il coinvolgimento c’è già, anzi si sta allargando, come dimostra l’apertura all’Iran, semmai sono le democrazie che devono investire su loro stesse, senza lasciare il campo libero a queste nuove esperienze di soft power, senza indietreggiare come se ci fosse spazio soltanto per l’uno o per l’altro. “Se le democrazie scelgono di perseguire una politica dello status quo che permette ai regimi di prendere l’iniziativa – conclude Walker – dobbiamo aspettarci nei prossimi anni un’erosione ancora maggiore dello spazio delle democrazie”.
Dopo il concerto a Palmira, il pool di giornalisti è stato riportato a Latakia e poi a Mosca, ma come ha raccontato Andrew Kramer, “dopo la solenne armonia, ci sono state dissonanze comiche nello spazio aereo tra l’Iraq e l’Iran”. Si è scoperto che alcuni giornalisti russi sono scappati dalla bolla di Latakia per comprare bottiglie della bevanda alcolica più nota della regione, l’Araq o latte di leone, al gusto di anice. I russi chiamano l’Araq “Igilovka” o “Piccolo Stato islamico”. In aereo le bottiglie sono saltate fuori, si è cominciato a bere, troppo, al punto che i giornalisti americani e russi si sono infine ritrovati d’accordo su un principio: il “piccolo Stato islamico” deve essere distrutto. Così è stato, poco prima dell’atterraggio all’aeroporto militare appena fuori Mosca.
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