Magistrati (foto LaPresse)

Il partito delle toghe avanza in tutto il mondo. E' il modello Davigo

Ermes Antonucci
Si fa un gran parlare dell’avanzata inesorabile dei populismi che starebbero mettendo a rischio in tutto il mondo la tenuta dei paesi democratici più avanzati, ma a vedere le cronache provenienti dalle varie parti del mondo un altro attore sembra ormai essersi posto come variabile fondamentale processo di crisi dei sistemi liberal-democratici: il potere giudiziario.

Si fa un gran parlare dell’avanzata inesorabile dei populismi che starebbero mettendo a rischio in tutto il mondo la tenuta dei paesi democratici più avanzati, ma a vedere le cronache provenienti dalle varie parti del mondo un altro attore sembra ormai essersi posto come variabile fondamentale nel processo di crisi dei sistemi liberal-democratici: il potere giudiziario. Ad aver sollevato da tempo l’attenzione su questo fenomeno è Giulio Sapelli, docente di Storia economica all’Università degli studi di Milano, che nel suo libro “Chi comanda in Italia” (Guerini e Associati, 2012) già quattro anni fa scriveva che “col declino delle grandi imprese e dei partiti, l’unica vertebrazione del potere è rimasta la magistratura, che non a caso ha un’autorità enorme”.

 

La riflessione di Sapelli sull’avanzata dei magistrati è di ampio respiro, riguarda l’intero scenario internazionale: “Oggi il caso del Brasile è quello più emblematico – dice il professore al Foglio – C’è una magistratura che non è riuscita a trovare un’accusa contro l’ex presidente Dilma Rousseff nell’inchiesta Petrobras, società petrolifera di cui è stata presidente. Perciò i giudici hanno colpito con pene fortissime i pochi industriali che continuavano a sostenerla, come il costruttore Marcelo Odebrecht che ha ricevuto una condanna a 19 anni di carcere, un’immensità. Ma gli stessi magistrati non colpiscono i  principali accusatori della Rousseff, pur indagati, se non con semplici avvisi di garanzia”. La vicenda brasiliana, secondo Sapelli, dimostra che “ogni qual volta che lo stato si indebolisce, o ci sono pressioni esterne, non interviene più l’esercito, come sosteneva lo studioso americano di relazioni internazionali Samuel Huntington, ma le toghe”.

 

Le tendenze all’espansione del potere politico dei giudici, nota Sapelli, “sono sempre più diffuse” anche in Asia, come nel caso della Birmania e soprattutto della Thailandia, dove “i seguaci dell’ex primo ministro, Thaksin Shinawatra, sono stati perseguiti dai magistrati che vedono nella separazione tra il partito del re e il partito delle classi medie ascendenti uno spazio per aumentare il loro potere”. Né sembra immune a questo fenomeno il continente europeo, dove “assistiamo a cose simili a quelle che abbiamo vissuto e viviamo in Italia, con ondate di persone indagate e che poi vengono assolte”, dalla Francia alla Spagna, dove peraltro i magistrati si sono spinti a indagare su componenti della famiglia reale. Senza dimenticare la situazione nei paesi ex comunisti.
“E’ il modello Davigo”. E’ l’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati, l’ex esponente del pool di Mani pulite che del resto “ha sempre rappresentato la componente intellettualmente più raffinata” del team guidato da Antonio Di Pietro, dice Sapelli, ad aver “creato un’ideologia che legittima l’espansione del potere”. Un’ideologia che “modifica la realtà”, facendo di tutto “per rendere visibile la corruzione, anche quando non c’è, in modo che aumenti il potere dei magistrati”. Le parole d’ordine? “Più processi, più carceri, più arresti preventivi”. Addio separazione dei poteri: “Siamo di fronte a una traduzione giacobina di una teoria antimontesquiana”.

 

Un modello, prosegue il professore, che ha preso piede anche negli Stati Uniti, “dove il ruolo degli attorney è immenso”, come alcune settimane fa ci ha ricordato la storia del senatore americano Bob McDonnell, condannato da un tribunale per qualcosa di simile al “traffico di influenze”, e che ora si è appellato alla Corte suprema. Il potere dei magistrati americani – sottolinea però Sapelli – “almeno è temperato dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri”. Una divisione che manca nell’ordinamento italiano, rendendo impossibile l’affermazione di “una cultura dell’indipendenza”, a vantaggio invece di “una cultura del poliziotto e dell’inquisitore”. “La cosa più deludente del governo Renzi – conclude Sapelli – è che non ha ancora fatto questa riforma della giustizia, e nonostante ciò viene attaccato dalla magistratura. Ma la cosa che mi fa più ridere è che molti costituzionalisti oggi gridano al colpo di stato per la riforma costituzionale, senza accorgersi che tutelano ancora un principio di origine fascista come quello della non divisione delle carriere”.