Finanza elettorale creativa
Il denaro, ultima regola sopravvissuta all'anarchia di Trump
New York. In una campagna elettorale che ha fatto saltare in aria tutte le regole e ridefinito gli standard della contesa democratica più codificata del mondo, l’unica oggettività rimasta sono i soldi. E quando si tratta di Donald Trump, miliardario bancarottiere e tycoon millantatore, i flussi di cassa sono ondivaghi e irrintracciabili, il “follow the money” è uno sport estremo, ci si inoltra in un dedalo dove anche il filo d’Arianna s’ingarbuglia, e i valorosi che riescono a trovare la via d’uscita vengono solitamente accolti da una querela. Timothy O’Brien, autore di una poco simpatetica biografia di Trump intitolata “Trumpnation”, si è ritrovato sulla scrivania una causa per diffamazione non per via dei motteggi e del tono canzonatorio ma per aver sottostimato la ricchezza del magnate. Diceva che al tempo dell’uscita del libro il patrimonio di Trump s’aggirava fra i 200 e i 300 milioni di dollari, mentre lui parlava di cinque miliardi, la cifra che i suoi avvocati hanno chiesto come risarcimento. Alla fine ha vinto l’autore.
Ma procediamo con ordine. Dopo le primarie orgogliosamente autofinanziate per non essere ridotto a “marionetta” manovrata dai signori del business, Trump ha ribaltato la regola autoimposta e ha aperto alle donazioni esterne, una decisione che va nella direzione della normalizzazione dopo tante anomalie. Trump ha vinto le primarie con un modesto investimento di 50 milioni di dollari, poco più dei 42 milioni che i gruppi repubblicani tecnicamente non affiliati ad alcun candidato hanno speso invano per disarcionarlo, e molto meno dei 180 milioni sborsati da Hillary Clinton. Il candidato ha usato con abilità la copertura mediatica gratuita e ha incassato in termini di immagine gli investimenti fatti negli ultimi quarant’anni per innalzare la sua brand awareness. Quando ha annunciato la candidatura, il suo nome e il suo volto erano noti al 96 per cento degli americani. La decisione di limitare le spese è anche in linea con la filosofia d’investimento di una famiglia di palazzinari che ha fatto fortuna incamerando sussidi, finanziamenti pubblici, linee di credito agevolate e blindate dalla politica, rispettando in modo ligio una regola sacra nel mondo del real estate: mai usare i tuoi soldi. Quando poi, nel 1990, Trump s’è trovato sepolto sotto 900 milioni di debiti ed è arrivato a un passo dalla bancarotta personale è diventato “ancora più conservatore” nella gestione delle spese.
Questi sono alcuni degli elementi che lo hanno fatto propendere per una virata nella strategia dei finanziamenti, per affrontare una campagna che ha costi strutturali enormemente superiori a quella delle primarie. Le spese di Trump hanno preso ad aumentare già da marzo, quando il Super Tuesday lo ha proiettato nella dimensione delle elezioni generali. Il fatto è che Trump non potrebbe autofinanziarsi nemmeno se volesse. Una meticolosa inchiesta del Wall Street Journal nel buco nero delle finanze di Trump ha rilevato che la sua liquidità disponibile è fra i 78 e i 232 milioni di dollari, cifre lontane dai 449 milioni che Mitt Romney ha speso quattro anni fa. Trump si è rifiutato di pubblicare la sua dichiarazione dei redditi, ma secondo il Wall Street Journal le sue entrate annuali sono intorno ai 160 milioni di dollari, troppo poco per sostenere lo sforzo. La sua portavoce ha detto che “la cifra è sbagliata di molto”, e poi ha messo in bocca al candidato la più trumpiana delle risposte, una sintesi dell’atteggiamento del suo elettorato di fronte all’ennesima piroetta: “Who cares, it doesn’t matter”.
Il cambio di marcia nella raccolta dei fondi ha un po’ ingolfato il motore della campagna elettorale. Trump sta negoziando con i maggiorenti del Partito repubblicano per ottenere l’appoggio politico incondizionato, obiettivo che nella mente di Trump è chiaramente subordinato all’accesso dei fondi del partito: nell’ultima tornata il Repubblican National Committee ha raccolto e speso in favore del candidato 386 milioni di dollari. Contemporaneamente, lavora alla costruzione delle infrastrutture necessarie per raccogliere e rimettere in circolo le donazioni: Trump non ha ancora un sistema di comitati politici per fare girare gli ingranaggi finanziari, e sta lavorando alla creazione di due comitati condivisi con il partito (e con i partiti di dieci stati) che permettono di raccogliere fondi per la candidatura da distribuire – con una certa elasticità – fra il candidato alla presidenza e i candidati al Congresso nei vari stati. Questi organi possono raccogliere legalmente donazioni cospicue da singoli finanziatori, e il modello è già stato messo a punto, in modo impeccabile, da Hillary, che ha un singolo fondo che incanala soldi di partito da 32 stati.
La fragilità delle strutture ha creato la situazione paradossale in cui miliardari che hanno già annunciato il loro sostegno a Trump al momento non sanno esattamente su quale conto depositare le donazioni. Alcuni stanno ancora aspettando una chiamata dagli uffici della campagna elettorale con le indicazioni tecniche. Fra questi c’è il re dell’azzardo Sheldon Adelson, il più grande finanziatore repubblicano dopo i fratelli Koch, che ha già pronto un assegno da cento milioni di dollari. Phil Ruffin, un altro magnate dei casinò di Las Vegas, aveva già contribuito con una donazione da un milione di dollari a un’associazione pro Trump che è stata poi sciolta per sospetti di irregolarità nella gestione dei fondi, e aprirà di nuovo il portafogli appena possibile. Carl Icahn e Stanley Hubbard sono pronti a dare il loro contributo, e miliardari meno noti (ma non meno liquidi) come T. Boone Pickens e Thomas Barrack stanno lavorando al fundraising.
Per guidare la grande transizione verso una campagna finanziata in modo tradizionale, Trump ha assunto Steven Mnuchin, un veterano degli affari di Wall Street e adepto di Goldman Sachs di seconda generazione. Ha lavorato nella banca d’investimento per 17 anni – prima di occuparsi di produzioni hollywoodiane, di lavorare per George Soros, di finanziare Hillary – e il padre, Robert, è stato un leggendario manager di Goldman, che ora, in pensione, guida una galleria d’arte e triangola con Jackson Pollock o Cy Twombly per mantenere i rapporti con Wall Street. Cosa pensa Trump di Goldman Sachs? “Conosco la gente di Goldman. Controllano totalmente – totalmente! – Cruz. Proprio come controllano Hillary”, ha detto in un dibattito, prendendo spunto dalla posizione della moglie di Cruz nella banca per montare una più generale invettiva contro Wall Street. Ora l’insulto a Hillary che va per la maggiore è “crooked”, corrotta, incestuosamente coinvolta con il potere finanziario. Ma quando Trump dice “conosco la gente di Goldman” è a personaggi come Mnuchin che si riferisce. Consigliato dal lobbista e manager della campagna, Paul Manafort, ha deciso per la metamorfosi finanziaria, e immediatamente ha telefonato a Mnuchin, offrendogli la responsabilità delle donazioni. Lui ha accettato su due piedi.
A completare il quadro dadaista dei finanziamenti di Trump c’è Anthony Scaramucci, noto a Wall Street come “The Mooch”, lo scroccone o il parassita, un manager di hedge fund e multiforme faccendiere che ha lavorato alla campagna di Scott Walker, poi è passato a quella di Jeb Bush e infine si è convertito al verbo di Trump mostrando lo zelo del sostenitore della prima ora e giustificando il suo soprannome. Scaramucci sta lavorando fra Wall Street, Las Vegas, Miami e ovunque ci siano soldi da raggranellare per portare la buona novella della rivoluzione imprenditoriale di Trump. Il candidato ha il modello di business giusto per trasformare Washington in una macchina imprenditoriale che funziona, ripete Scaramucci, che ha articolato il concetto anche in un corsivo apparso sul Wall Street Journal. Al Journal si sono però dimenticati di indicare che lo scroccone è a libro paga di Trump.