Il presidente americano Barack Obama e il presidente vietnamita Tran Dai Quang (foto LaPresse)

Lo “zen del giocoliere” del Vietnam, schiacciato tra Washington e Pechino

Massimo Morello

Obama arriva ad Hanoi per promuovere il suo pivot asiatico e revoca definitivamente l’embargo. Aperture storiche e pragmatismo.

“Il Vietnam è entrato nella contemporaneità”. Così diceva, pochi mesi fa, una giovane di Saigon. Non pensava alla storia ma al business, allo stile di vita. Lunedì 23 maggio, in tarda mattinata, il Vietnam è entrato storicamente nella contemporaneità, con una decisione che ha eliminato “le ultime vestigia della Guerra fredda”. “Gli Stati Uniti hanno completamente revocato il bando alla vendita d’armi al Vietnam in vigore da quasi cinquant’anni”, ha dichiarato il presidente Obama in una conferenza stampa ad Hanoi.

 

L’Air force one era atterrato poche ore prima al Noi Bai International Airport della capitale vietnamita, una trentina di chilometri a sud di Phuc Yen, la base aerea nordvietnamita, al centro di furiosi combattimenti durante quella che qui viene definita la Guerra americana.  Al suo arrivo il presidente è stato accolto da una ragazza in “ao dai”, il tradizionale abito vietnamita composto da una lunga tunica dai profondi spacchi laterali. Nel 1975, dopo la riunificazione del paese, era stato bandito come decadente.

 

Da allora i cambiamenti sono stati continui, definiti “di magnitudo himalayana”, in economia come nel costume. Dopo la proclamazione del Doi Moi, la liberalizzazione, nel 1986, il Vietnam è divenuta la nuova Tigre Asiatica. Il 95 per cento dei vietnamiti ha fede nel capitalismo. La percentuale più alta del mondo. Per molti giovani il nuovo idolo è Pham Nhat Vuong, primo vietnamita a entrare nella lista dei miliardari della rivista “Forbes”. Quanto all’ao dai, è divenuto un modello di riferimento per le stiliste come Dinh, che crea modelli riservati alle nuove élite. “Non disegno per la massa”, dice, inconsapevole di incarnare un paradosso storico.

 

La guerra americana diviene un ricordo, per molti un business, nel 1995, con l’adesione del Vietnam all’Asean (l’Associazione dei paesi del sud-est asiatico), la riapertura delle relazioni con l’America e l’accesso ai prestiti del Fondo monetario internazionale. “I teatri di guerra sono diventati poli produttivi: il Delta del Mekong a sud, il delta del Fiume Rosso a nord: nel primo si concentra il 35 per cento del pil, nel secondo il 25”, dice Johan Kruimer, manager di una delle società finanziarie spuntate a Saigon. Intanto cominciavano ad arrivare i primi turisti americani. Per loro il “Museo dei crimini di guerra americani” è stato ribattezzato “Museo dei residuati bellici” e per loro sono state allargate le gallerie di Cu Chi, una trentina di chilometri a nord di Saigon, dove si nascondevano i Vietcong. “Non ci passavano: sono troppo grassi” spiega una guida.

 

Nel novembre del 2000 Bill Clinton è il primo presidente americano a visitare il paese dalla fine della guerra. Nel 2006 è la volta di George W. Bush. Da allora gli scambi commerciali tra i due paesi hanno raggiunto i 45 miliardi di dollari. Nel 2013 viene siglata la US-Vietnam Comprehensive Partnership, accordo di cooperazione economica e culturale, l’anno seguente gli Stati Uniti revocano parzialmente l’embargo sulla vendita d’armi. Decisione motivata dalla necessità di fornire mezzi navali (come le cinque motovedette appena consegnate) da contrapporre alla flotta cinese nel Bien Dong, il Mare dell’est.

 

Il motivo della visita di Obama e della totale revoca del bando si trova in quelle acque, note come mar della Cina meridionale. Per molti analisti e scrittori di fantapolitica sarà lo scenario della terza guerra mondiale. Il governo di Pechino reclama la sovranità sull’80 per cento dei 3.5 milioni di chilometri quadrati d’acque tra Taiwan e il Borneo, delimitate a ovest da oltre 3.000 chilometri di coste vietnamite, disseminate di isole, isolotti e scogli che sono rivendicati da Cina, Vietnam, Filippine, Malaysia. L’obiettivo cinese è la creazione di una zona d’influenza sul Pacifico occidentale. Gli Stati Uniti contrappongono la strategia dell’Asian Pivot, far perno sull’Asia, con un “sostanziale incremento degli investimenti” diplomatici, commerciali e militari nell’area.

 


Il presidente americano Barack Obama e il presidente vietnamita Tran Dai Quang durante la conferenza stampa ad Hanoi (foto LaPresse)


 

In questo confronto il Vietnam ha cercato di mantenersi in equilibrio tra le superpotenze: la Cina è un vicino troppo pericoloso (come dimostrato da mille anni di relazioni asimmetriche sino alla brevissima e sanguinosa guerra del 1979). Almeno sino al 2014, quando la Cina installa la Haiyang Shiyou 981, gigantesca piattaforma petrolifera al largo delle isole Paracel (per i vietnamiti le Hoang Sa), all’interno della zona economica esclusiva vietnamita. L’anno seguente la Cina inizia a trasformare molte isole contestate in basi militari e aeroporti. Quello stesso anno, probabilmente vincendo una personale diffidenza, Nguyen Phu Trong, esponente dell’ala più conservatrice del governo di Hanoi, è il primo segretario generale del partito comunista vietnamita a recarsi negli Stati Uniti. La risposta cinese non si fa attendere: atolli corallini sono trasformati in isole e su queste sono costruiti altri aeroporti, le acque del mar della Cina sono “invase” da una flotta di pescherecci della Repubblica Popolare. Poco tempo fa la fantapolitica ha rischiato di diventare realtà quando un caccia cinese intercetta un aereo da ricognizione americano. Situazione che il Pentagono definisce “unsafe”.

 

La visita di Obama va inserita in questo scenario. “Questo viaggio manda alla Cina un segnale forte e chiaro circa l’impegno statunitense nella regione e la crescente preoccupazione per il comportamento cinese”, ha commentato Evan Medeiros, ex consigliere di Obama per l’Asia. “Contribuisce attivamente alla pace e alla stabilità globale e regionale”, ha dichiarato il neo presidente vietnamita Tran Dai Quang. Secondo molti osservatori, tuttavia, è ancora prematuro parlare di alleanza. Tanto meno dopo il XII congresso del Partito comunista vietnamita. Concluso nel gennaio scorso, ha visto l’affermazione dell’ala conservatrice, facente capo al Segretario Trong e rappresentata dal presidente Quang (in precedenza era a capo dei servizi di sicurezza interni) e dal primo ministro Nguyen Xuan Phuc. Il “Triumvirato” è considerato più vicino a Russia e Cina che non agli Stati Uniti e molto meno disponibile a riforme economiche e sociali che possano minare il partito unico rispetto al precedente primo ministro Nguyen Tan Dung (grande sconfitto del congresso), l’uomo secondo cui “la democrazia è il futuro”. Ne ha tenuto conto anche Obama: ogni contratto militare, ha dichiarato, sarà condizionato a verifiche sul rispetto dei diritti umani in Vietnam. I vietnamiti dal canto loro hanno dato un segnale d’apertura qualche giorno prima del suo arrivo: hanno liberato il Reverendo Nguyen Van Ly, uno degli oppositori al regime di maggior rilievo (versione cattolica e maschile di Aung San Suu Kyi), che ha trascorso gran parte degli ultimi vent’anni in prigione o ai domiciliari. Ma restano in prigione decine di oppositori e il Partito comunista mantiene uno stretto controllo sul Parlamento (alle ultime elezioni, svolte alla vigilia dell’arrivo di Obama, su 870 candidati solo 97 non erano membri del Partito).

 

In realtà ciò che più interessa agli Stati Uniti e per cui Obama è disposto a mettere sul piatto della bilancia i diritti umani, è la possibilità di stabilire nuove basi navali in Vietnam. In particolare quella di Cam Ranh, sul golfo del Tonchino, in posizione strategica per controllare i movimenti della flotta cinese e ancor più il traffico di greggio e materie prime verso la Cina. Il Vietnam stesso è ormai strategico al pivot asiatico: dopo la vittoria di Duterte alle elezioni filippine, non è così sicura l’alleanza di quella nazione, né la riapertura delle basi concordata col suo predecessore Aquino. Inoltre in tutto il sud-est asiatico, area prioritaria nel pivot, la strategia di Obama rischia di essere vanificata dalla deriva autoritaria di molti paesi dell’Asean: in Laos come in Cambogia, nelle Filippine come in Thailandia. Per tutti questi paesi la Cina non è solo un partner economico, ma rappresenta un modello di governance in cui si riconoscono più facilmente. Un accordo americano con il Vietnam spezzerebbe questo fronte.

 

Il Vietnam, invece, non ha così bisogno delle armi americane: negli ultimi cinque anni le importazioni militari sono cresciute del 699 per cento: in gran parte dalla Russia e da Israele. L’abolizione dell’embargo, oltre che per acquisire tecnologie di sorveglianza, serve soprattutto a strappare prezzi migliori ai concorrenti. Per Hanoi, dunque, la visita di Obama rappresenta una garanzia nei confronti della Cina, specie se le rivendicazioni di Pechino sul mare dell’Est divenissero più pressanti. Un’ipotesi, resa probabile dall’adesione del Vietnam al Trans-Pacific Partnership (Tpp), iper-accordo economico destinato a creare un’immensa area di libero scambio che dovrebbe comprendere un terzo del commercio planetario e il 40 per cento del pil globale. Il Tpp avvantaggia il Vietnam quanto danneggia la Cina. Il Vietnam, secondo le stime della World Bank vedrebbe crescere il proprio pil del 10 per cento entro il 2030 e diminuire in modo esponenziale il debito verso l’America. La Cina, invece, oltre a essere esclusa dal Tpp risentirebbe del crollo delle esportazioni verso il Vietnam.  

 

Alla fine, sembrerebbe abbia vinto il Vietnam, il “Killer dei Giganti”. Applicando per l’ennesima volta un’arte tradizionale: lo “Zen del Giocoliere”. L’espressione, coniata da M. K. Bhadrakumar, esperto di geopolitica asiatica, si riferisce sia alla filosofia buddhista diffusa in Vietnam sia alla capacità di trovare un equilibrio tra forze contrapposte (uno dei fini dello Zen).  Ma questa volta, forse, ad applicarla meglio è stato proprio Obama. Nel suo caso si chiama pragmatismo.

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