L'elezione di Jannati in Iran spiegata con la Teheranologia

Annalisa Perteghella
L'elezione dell’ayatollah ultra-radicale Ahmad Jannati, 89 anni, a capo della nuova assemblea degli esperti segnala che la fazione integralista è viva e vegeta nonostante l’apparente sconfitta alle elezioni dello scorso febbraio.

Roma. Durante la guerra fredda, Cremlinologia era il termine utilizzato per indicare quello sforzo di interpretazione dell’operato degli imperscrutabili e opacissimi leader sovietici da parte degli osservatori occidentali. Il detto e il non detto, il fatto e il non fatto, erano considerati alla stregua di segnali di fumo per tentare di leggere quanto accadeva di là dalla cortina di ferro, e ciò nonostante l’Unione Sovietica rimaneva – nelle parole di Winston Churchill – un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma.

 

Una dinamica simile è in atto oggi quando si parla di Iran. L’elezione del “moderato” Hassan Rouhani nel 2013 e la firma dell’accordo nucleare nel 2015 hanno risvegliato tra gli osservatori l’interesse nei confronti di un paese che, pur continuando a venir percepito come misterioso e pericoloso, sembra sia oggi sul punto di veder succedere qualcosa che ne possa cambiare il destino. La Teheranologia è divenuta la scienza di coloro che scrutano più o meno quotidianamente i movimenti all’interno dei circoli di potere iraniani, per cercare di carpire indicazioni circa il possibile futuro orientamento dell’opacissima Repubblica islamica.

 

Questa settimana il cannocchiale dei teheranologi è stato puntato sulla prima riunione dell’Assemblea degli esperti, nella sua nuova composizione dopo le elezioni di febbraio. Ordine del giorno era l’elezione del presidente dell’Assemblea. Il motivo dell’interesse è presto spiegato: l’Assemblea degli esperti, organo peculiare al peculiarissimo ordinamento istituzionale della Repubblica islamica, è dotata del potere di supervisione sull’operato della Guida suprema. Semi-dormiente per la maggior parte degli otto anni di mandato, diventa improvvisamente fondamentale nel momento in cui si rende necessario trovare un successore al rahbar. Considerati anzianità e condizioni di salute in apparenza precarie dell’attuale Guida, l’ayatollah Ali Khamenei, è estremamente probabile che sia proprio quest’Assemblea a scegliere la prossima Guida. E osservando la nomina presidenziale, espressione della maggioranza dell’Assemblea, sarebbe possibile desumere quale fazione deterrebbe il comando nel momento in cui l’Assemblea venisse chiamata a scegliere la prossima Guida.

 

Finora, la Repubblica islamica ha conosciuto questa pratica solamente una volta: nel 1989, venuto a mancare l’ayatollah Khomeini, l’Assemblea votò, in una delle transizioni di potere in apparenza più semplici della storia, la “promozione” dell’allora presidente della repubblica Ali Khamenei al rango di Guida suprema. L’epoca post-khomeinista si apriva con una prima pesante picconata all’invenzione khomeinista della velayat-e faqih, la dottrina secondo cui a governare lo stato islamico avrebbe dovuto essere il più dotto tra i dotti religiosi, la massima autorità della gerarchia religiosa sciita. Nonostante Ali Khamenei mancasse dei requisiti giuridico-teologici necessari, gli fu attribuito in fretta e furia il titolo di ayatollah, con buona pace dei “turbanti non politici”, da allora condannati al quietismo in seminario: una modifica costituzionale approvata poche settimane prima della morte di Khomeini aboliva il requisito della suprema autorità religiosa (marjayyat) per accedere al ruolo di Guida suprema. A manovrare dietro le quinte in tale senso fu Hashemi Rafsanjani, lo “squalo” della politica iraniana, a capo della fazione dei cosiddetti tecnocrati che auspicavano un rilassamento della retorica rivoluzionaria, un riallacciamento dei rapporti con il mondo esterno e una più ampia libertà di manovra in campo economico.

 

Ma molta acqua è passata sotto i ponti da allora; la relazione utilitaristica tra Khamenei e Rafsanjani si è trasformata sempre di più in una relazione disfunzionale, segnata da rivalità e competizione. Oggi che la Repubblica islamica è divenuta qualche cosa di molto diverso da quanto originariamente delineato nel progetto khomeinista, e sicuramente agli antipodi rispetto alle speranze dei tanti “diseredati” che avevano creduto nelle promesse di giustizia e riscatto della rivoluzione, anche il processo di selezione della prossima Guida suprema si prepara a essere terreno di scontro tra le diverse anime del sistema.

 

In questo senso, c’è chi ha visto nell’elezione alla presidenza dell’Assemblea degli esperti dell’ottantanovenne ayatollah Ahmad Jannati, ultra-radicale, il segnale che la fazione più integralista, e teoricamente più vicina a Khamenei, è viva e vegeta nonostante l’apparente sconfitta alle elezioni dello scorso febbraio. In assemblea sarebbe dunque attualmente presente una maggioranza di 51 religiosi su 80, tanti sono i voti ottenuti da Jannati, che in caso di dipartita di Khamenei convergerebbe su una figura più vicina agli ambienti più conservatori, o quantomeno una figura non appartenente allo schieramento di Rafsanjani.

 

La verità è che le appartenenze politiche e ideologiche in Iran cambiano al ritmo delle rivalità personali, e che alla fine a spostare l’ago della bilancia anche all’interno dell’Assemblea degli esperti è sempre l’Hezb-e bad, il partito del vento, vale a dire degli indecisi (molti) e degli opportunisti (di più). Senza contare il fatto che la selezione della prossima Guida rappresenta per la Repubblica islamica di oggi una difficilissima opera di quadratura del cerchio. Se formalmente, secondo la Costituzione, trovare un successore per Khamenei significa trovare un “giurista giusto e pio, conoscitore della propria epoca, coraggioso, dotato di energia, di iniziativa e di abilità amministrativa”, nella pratica significherà trovare un ayatollah fedele alla linea ma dotato anche delle credenziali religiose necessarie per sanare il vulnus di legittimità creato dall’elezione di Ali Khamenei e dal progressivo imporsi di logiche diverse da quella religiosa. Il paese degli ayatollah, della rivoluzione contro la modernità, è infatti paradossalmente divenuto il paese in cui il prodotto della modernità per eccellenza – lo stato – ha addomesticato e ricondotto sotto la propria autorità la religione, lo sciismo autentico degli ayatollah che interpretavano la parola di Allah mediante l’uso della logica e della ragione.

 

Nonostante gli sforzi della teheranologia, insomma, anche l’Iran rimane un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma. Forse, e soprattutto, anche per se stesso.

 

Annalisa Perteghella è Assistant Research fellow all'Ispi

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