Primarie sinistre
Mail, inchieste, sondaggi. I giorni infelici della campagna di Hillary
New York. Che Hillary Clinton avesse usato diversi account di posta elettronica personali per il suo incarico pubblico quando era segretario di stato non era sfuggito. Quello che sfuggiva era la natura della violazione del protocollo, ovvero se si trattava di una scelta deliberata allo scopo di nascondere e schermare informazioni facendosi scudo con server privati, oppure soltanto un innocente fatto di comodità e “convenienza”, come ha sempre detto la candidata. Un’inchiesta interna del dipartimento di stato inviata ieri al Congresso sostiene che la versione di Hillary ha le gambe corte. L’uso di un account privato, si legge nel report, “non è un metodo appropriato” per conservare documenti di rilevanza pubblica, cosa che smonta una delle giustificazioni ricorrenti offerte dalla Clinton: dal momento che i destinatari sono per lo più email ufficiali di funzionari del dipartimento di stato, il contenuto rimane all’interno del circuito informativo designato. L’inchiesta dice che Hillary non ha consegnato tutti i messaggi al dipartimento di stato una volta finito il mandato, e che i rischi di usare una email privata per affari pubblici erano ben noti al suo staff, non c’era ignoranza o ingenuità. Il problema del corretto stoccaggio delle informazioni è stato messo all’attenzione dei più stretti consiglieri di Hillary diverse volte, a partire dal 2010, e tutti hanno sempre citato il passaggio di un controllo legale di cui però non c’è alcuna traccia. Il direttore della sicurezza di Foggy Bottom, allertato dai sottoposti sulle vulnerabilità dei server, ha detto al team che il loro lavoro era “sostenere il segretario” e ha ordinato di “non parlare mai più del suo sistema personale di email”.
Diverse volte gruppi di hacker hanno attaccato le email personali di dipendenti del dipartimento, cosa nota alle autorità competenti ma che non ha cambiato la pratica. Hillary e i suoi collaboratori più vicini si sono rifiutati di deporre per l’inchiesta interna, mentre l’Fbi sta continuando a indagare. Ieri un portavoce della candidata ha detto che l’utilizzo delle email è “paragonabile a quello di altri ex segretari di stato”.
Secondo l’inchiesta, soltanto Colin Powell e un ambasciatore presso il Kenya hanno usato la mail privata per gli affari pubblici con la stessa, sistematica costanza esibita da Hillary e dal suo clan. Nessuno dei due ha poi deciso di correre per la Casa Bianca. Quello delle email non è affatto l’unico ostacolo sulla strada di Hillary, candidato con la nomination democratica in tasca che deve difendersi dagli attacchi sempre più affilati di Bernie Sanders, sfidante battuto ma più che vivace. In California, dove si vota il 7 giugno, si stanno definitivamente avvelenando i pozzi, e il senatore del Vermont carica il suo pubblico dicendo che Hillary non lo considera all’altezza della Casa Bianca; lei, in realtà, non lo ha mai detto, ma ormai l’iperbole è ampiamente sdoganata. A tal punto che si sta espandendo, nei sondaggi e nelle dichiarazioni, un fronte di sanderisti intransigenti che non darà il suo sostegno alla candidata democratica a novembre. “Bernie or Bust” è l’equivalente democratico di “Never Trump”, e la candidata ha assoldato anche la senatrice anti Wall Street Elizabeth Warren per convincere la base alla sua sinistra. Infine, l’inchiesta che è piombata addosso a Terry McAuliffe, governatore della Virginia e protetto di prima categoria della famiglia Clinton, sfiora anche la campagna dell’ex segretario. L’accusa è di aver ricevuto finanziamenti elettorali illegali da un’azienda controllata dal businessman cinese Wang Wenliang, ben inserito nei gangli del partito. Lo stesso Wenliang ha donato poi due milioni di dollari alla Clinton Foundation, della quale McAuliffe è un consigliere. La campagna di Hillary ha avuto giorni più felici.