Ma chi ce la fa fare questa Brexit? Storia di una guerra culturale
“L’adesione alla Comunità europea è un processo graduale, le cose non cambieranno da un giorno all’altro. Ma rispetto alla nostra vita quotidiana, scopriremo che si tratta di un’enorme opportunità di incrociare conoscenze e informazioni, non soltanto nel business ma in ogni altro ambito. E questo ci permetterà di essere più efficienti e più competitivi e di conquistare altri mercati non soltanto in Europa, anche nel resto del mondo”.
Edward Heath, premier conservatore del Regno Unito, il 1° gennaio 1973 commentando l’ingresso del suo paese nella Comunità europea. Il Regno Unito aveva provato a entrare già nel 1963 e nel 1967, ma aveva incontrato l’ostilità di alcuni paesi, soprattutto quella della Francia del generale De Gaulle.
Un conservatore riuscì a portare il Regno Unito dentro all’Europa, un conservatore oggi è alle prese con una consultazione sulla permanenza del Regno nell’Unione europea. In mezzo c’è stato un referendum, organizzato il 5 giugno del 1975 da un governo laburista, con una domanda secca: “Pensi che la Gran Bretagna debba rimanere nella Comunità europea?”.
Vinse il “sì” con il 67 per cento dei voti e un’affluenza del 65 per cento, i conservatori liberali – in particolare la signora Margaret Thatcher, che era appena stata eletta leader dei tory – votarono a favore dell’Europa. Le divisioni, le liti, le accuse, le fratture furono tutte un affare interno ai laburisti: alcuni ministri si ribellarono alla linea del “sì” invocata dall’allora premier, l’eurotiepido Harold Wilson, che negoziò per sei mesi a Dublino nuovi termini di membership con Bruxelles nonostante l’ingresso nella Comunità europea fosse avvenuto soltanto un anno prima. Wilson contava sull’appoggio della Germania di Helmut Schmidt e, per la prima volta, di quello della Francia di Valéry Giscard d’Estaing. Uno dei grandi sostenitori del “no” fu Tony Benn, padre dell’attuale ministro degli Esteri ombra laburista Hilary Benn. Tony Benn, campione della sinistra, si unì con il destrorso Enoch Powell e con i comunisti in una campagna referendaria protezionista, che voleva soffocare l’ispirazione mercatista e di apertura del progetto europeo.
Alla Camera dei Comuni l’accordo di Dublino fu approvato, ma metà dei laburisti votò contro e per due mesi la guerra civile dentro al Labour divenne spettacolare. Quando vinse il “sì”, Benn disse che era necessario accettare il risultato e tornare a lavorare insieme, mentre Powell definì il risultato “provvisorio”. Nonostante una vittoria senza appello, la questione europea sembrava ancora irrisolta. Nel 1979, il Labour perse le elezioni, la leadership passò all’euroscettico Michael Foot, che nel 1983 organizzò una campagna elettorale improntata sull’abbandono della Comunità europea, al punto che un gruppo di laburisti pro Europa lasciò il Labour e fondò un partito rivale, il Social democratic party (Sdp). Ci vollero ancora dieci anni – e l’aiuto del presidente della Commissione europea Jacques Delors – perché il Labour si riconciliasse con la questione europea.
Dal 1975 a oggi l’Europa ha cambiato faccia. Allora c’erano nove membri, oggi ce ne sono 28, allora c’era il Muro di Berlino, oggi è crollato, c’è un mercato unico e una valuta comune in 19 paesi dell’Unione. Ma la sensazione di déjà vu è dappertutto.
I riferimenti storici a quel che accadde quarant’anni fa si ritrovano in ogni analisi e in ogni proiezione sul referendum europeo. C’è un’unica, enorme differenza: la guerra civile oggi è all’interno del mondo conservatore. E c’è anche una grande novità: i liberali che animano il Partito conservatore sono spaccati. Ci sono i liberali a favore del “remain” e i liberali a favore del “leave”, ed è questa – dal punto di visto politico e culturale – la storia più bella da raccontare su questa brutta campagna referendaria. Ci sono poi molte similitudini con il 1975: il premier David Cameron, come Wilson, è un eurotiepido che si è ritrovato a dover difendere l’Europa con un entusiasmo che non gli appartiene (il risultato infatti non è dei più convincenti); il Partito conservatore si è spaccato lungo linee ideologiche e personali molto profonde; parte del fronte del “no”, che oggi si chiama “leave”, ha già detto che un risultato positivo nei confronti dell’Ue dovrebbe essere considerato “provvisorio”, soprattutto se la vittoria fosse risicata; la ricomposizione del partito dopo il referendum potrebbe durare anni.
La domanda cui gli inglesi dovranno rispondere il 23 giugno è: “Il Regno Unito dovrebbe rimanere un membro dell’Unione europea o dovrebbe lasciare l’Unione europea?”. Si dovrà mettere una “x” accanto a “remain” o a “leave”. Tutti i cittadini britannici, irlandesi e del Commonwealth che hanno compiuto 18 anni potranno votare, compresi i cittadini britannici che vivono all’estero e che sono stati iscritti al registro elettorale negli ultimi 15 anni. A differenza di quanto avviene nelle elezioni politiche, i membri della Camera dei Lord e i cittadini del Commonwealth di Gibilterra hanno diritto di voto. I cittadini di altri paesi europei, a parte quelli di Irlanda, Malta e Cipro, non potranno dare la loro preferenza al referendum. E’ possibile registrarsi per il voto entro il 7 giugno: se non si è registrati il 23 giugno non si può partecipare al referendum. Si può votare via posta entro le cinque del pomeriggio di mercoledì 8 giugno.
Le campagne ufficiali, scelte dalla Commissione elettorale, sono “Britain Stronger in Europe” e “Vote Leave”: hanno ricevuto fondi pubblici per 600 mila sterline e hanno un limite di spesa complessivo di 7 milioni di sterline. “Britain Stronger in Europe”, il più grande gruppo per il “remain”, è guidato dall’ex presidente di Marks and Spencer, Lord Rose. Ha il sostegno del primo ministro conservatore, David Cameron, del cancelliere dello Scacchiere George Osborne, di molti parlamentari laburisti, compresi il leader Jeremy Corbyn e l’ex ministro Alan Johnson, che guida la campagna “Labour In for Britain”, dei lib-dem, di Plaid Cymru, dell’Alliance party, dell’Sdlp in Irlanda del nord, e del Green Party. Il partito nazionalista scozzese, l’Snp, sta guidando una propria campagna per il “remain” perché non vuole partecipare a nessuna piattaforma comune con il Partito conservatore. “Britain Stronger in Europe” ha raccolto finora 6,88 milioni di sterline: il donatore singolo più generoso – 2,3 milioni di sterline – è il magnate laburista Lord Sainsbury. Tra gli altri contribuenti più conosciuti spiccano il manager di hedge fund David Harding, che ha donato 750 mila sterline, il fondatore di Travelex Lloyd Dorfman, che ha donato 500 mila sterline come la Tower Limited Partnership.
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“Vote Leave” ha il sostegno di alcuni conservatori di peso, come il ministro della Giustizia Michael Gove e l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, più una manciata di parlamentari laburisti – la più famosa è Gisela Stuart. Appoggiano “Vote Leave” anche alcuni membri dell’Ukip, come Douglas Carswell e Suzanne Evans, e il Dup nordirlandese. Molto attivi sono anche l’ex cancelliere dello Scacchiere Lord Lawson e uno dei fondatori del partito europeista Sdp (sì, ci sono parecchie stranezze in questo confronto referendario) Lord Owen. Ci sono anche alcuni gruppi più piccoli affiliati a “Vote Leave”, tra cui i “Farmers for Britain”, i “Muslims for Britain” e “Out and Proud”, un gruppo di omosessuali contro l’Ue. Finora “Vote Leave” ha raccolto 2,78 milioni di sterline, il suo contribuente più generoso è l’imprenditore Patrick Barbour, che ha donato 500 mila sterline, mentre il tesoriere dei Tory, Peter Cruddas, ha donato 350 mila sterline.
Il problema di “Vote Leave” è che non è riuscito a trovare un accordo con l’altro grande gruppo che fa campagna per il “leave”: si chiama “Leave.Eu/Go!” ed è il playground del leader degli indipendentisti dell’Ukip Nigel Farage. Il più grande sostenitore di questo gruppo è il magnate dell’Ukip Arron Banks, che dice di aver raccolto 9 milioni di sterline e ripete che “Leave.Eu” è l’unico movimento che è riuscito a creare una mobilitazione: avrebbe 500 mila iscritti, organizza un evento ogni giorno in tutto il Regno Unito, anzi a volte anche più di uno. La Brexit, per Farage e Banks, è una battaglia antica ed epocale, e per questo non hanno preso molto bene il fatto che la Commissione elettorale abbia scelto il più mondano “Vote Leave” come campagna ufficiale: le divisioni tra i due gruppi sono ideologicamente enormi. Se Farage vuole uscire dall’Ue perché crede che sia troppo mercatista e danneggi gli interessi britannici che sarebbero ben più salvaguardati da politiche di chiusura a beni e soprattutto a persone, il fronte “Vote Leave” crede al contrario che l’Ue debba essere abbandonata perché è troppo protezionista e con le sue politiche danneggia i consumatori, le aziende e la crescita britannica. Siamo vicini a uno scontro di civiltà, e questo spiega perché, nonostante in questa campagna si siano viste alleanze invero strane, i due gruppi non sono riusciti a unirsi: nelle urne non conteranno naturalmente le motivazioni di voto, ma se dovesse vincere la Brexit allora sì che il peso ideologico della scelta – più o meno protezionismo, più o meno immigrazione – avrà delle ripercussioni su quel che si deciderà in seguito.
David Cameron si è rifiutato di fare un dibattito televisivo sul referendum, accetta soltanto interviste e incontri con gli elettori, ma un “clash” pubblico non lo vuole proprio organizzare. Ha acconsentito a un dibattito organizzato da Itv con Nigel Farage ma senza confronto diretto: entrambi risponderanno alle domande in segmenti separati durante un’ora di trasmissione, il 7 giugno. Lo stesso format è stato adottato da Sky News che organizzerà un confronto tra il premier e Michael Gove il 2 giugno: risponderanno alle stesse domande, a 24 ore di distanza uno dall’altro. Al gran dibattito finale moderato, si fa per dire, dal mastino Jeremy Paxman la sera prima del voto Cameron non si presenterà. “Codardo”, ha commentato il ministro ribelle Duncan-Smith, e da giorni il Daily Mail non fa che chiedere a Cameron: non hai paura a dire che i sostenitori della Brexit sono “immorali” (sì, ha detto anche questo) ma hai paura a rispondere a domande su economia, immigrazione, commercio? Fai tanto l’americano e non vuoi partecipare ai dibattiti, massima espressione democratica di stampo statunitense? Cameron non risponde.
Le previsioni sono un argomento delicato nel Regno Unito. Dopo gli errori alle politiche dello scorso anno – quasi nessuno ipotizzò la vittoria dei Tory – ora i sondaggisti sono a caccia di un riscatto, ma soffrono di un grave handicap statistico. Non ci sono precedenti. Solitamente le previsioni si basano su una rielaborazione dei dati storici unita alle interviste, via email o via telefono, agli elettori. Poiché il Regno Unito non è un paese in cui si organizzano molti referendum (per fortuna, viene da dire) e l’ultimo sul tema risale a 40 anni fa, non esiste un trend storico solido cui fare riferimento. Non esiste nemmeno un altro caso in Europa con il quale fare comparazioni, anzi: la possibilità che un paese lasci l’Ue è talmente remota che non è nemmeno stata prevista una procedura di uscita. Ogni volta che si cita un sondaggio quindi è necessario enunciare tutte le cautele possibili, riassumibili in: nessuno-sa-davvero-che-cosa-accadrà. Le rilevazioni comunque ci sono, anzi ce ne sono tantissime. Le più citate sono quelle aggregate da NC Politics Uk, perché questa è l’unica organizzazione che, l’anno scorso, ha previsto – inascoltata – la vittoria dei Tory o, per meglio dire, ha previsto il disastro statistico di tutti gli altri. Secondo un “sondaggio dei sondaggi” elaborato da NC Politics Uk, al momento la possibilità che vinca la Brexit è data al 20 per cento, il campo del “remain” è al 47 per cento (in crescita) e il “leave” al 42 (in leggera discesa). Matt Singh, fondatore di NC Politics Uk, dice al Foglio che “il trend è a favore del ‘remain’, anche se non in modo così deciso come potrebbe sembrare: c’è una distorsione dettata dal fatto che si fanno pochi sondaggi via telefono”, si preferisce la formula online, e le risposte possono differire di parecchio. “Comunque l’avanzamento del ‘remain’ è stato nelle ultime settimane consistente”, dice Singh.
Gli indecisi rappresentano ora circa il 12 per cento dell’elettorato. Simon Kuper, che è uno scrittore molto attento e molto originale – scrive articoli bellissimi, tra gli ultimi ce n’era uno imperdibile sul Financial Times sul peso fisico di lasciare l’Europa – dice al Foglio che per capire davvero come andranno le cose non serve avventurarsi in mezzo ad algoritmi incomprensibili: “E’ sufficiente assecondare i gusti britannici e controllare sempre gli umori degli scommettitori”. Landbrokes scrive che nelle ultime settimane le scommesse sul referendum sono state “a senso unico”: la possibilità di una Brexit è data oggi al 21 per cento, il dato più basso mai registrato (era al 40 per cento alla fine del 2015). Il 90 per cento delle puntate fatte presso Ladbrokes nell’ultimo mese sono state a favore di una vittoria del “remain”.
Poiché il fronte del “leave” sta vivendo un momento di calo, sono cominciate le recriminazioni. Aaron Banks, finanziatore di Farage e di “Leave.Eu”, dice che la campagna “infelice” di “Vote Leave” sta facendo perdere il referendum ai sostenitori della Brexit: “E’ ora che loro mettano da parte i loro pregiudizi patetici e inizino a usare Nigel Farage”, ha detto Banks. Farage intanto, in attesa di un invito ufficiale da parte degli schizzinosi di “Vote Leave”, ha dato mandato ai suoi di “bully people”, “convincente la gente, costringetela, andate nei pub, nei club, nelle case, costringete la gente a riprendersi indietro il paese”. L’Ukip ha anche reso pubblici i numeri di telefono di alcuni esponenti di “Vote Leave” dicendo: bombardateli di telefonate, fate in modo che si sveglino. Il mondo di Farage pretende un cambio di strategia più profondo rispetto a una maggiore aggressività: chiede di parlare di immigrazione. Basta con i numeri di crescita, non crescita, recessione, disoccupazione, parliamo di immigrazione, un tema su cui il premier è in grande imbarazzo. Anche “Vote Leave” è in imbarazzo, a dire il vero: non tanto per il tema in sé, ma perché l’immigrazione è un cavallo di battaglia dell’Ukip, e si rischia così di far evaporare quello spirito ottimista e di riscatto dell’eccezionalismo britannico su cui puntano Johnson e Gove. Ma mancano quattro settimane al voto, non c’è più molto tempo per imporsi.
La regola di base è: i ragazzi sono più eurofili e gli anziani più euroscettici. Kuper spiega che a contare è il fatto che i giovani sono per lo più “cosmopoliti, possono avere opinioni diverse sul libero mercato e sulle questioni economiche, ma per quanto riguarda l’immigrazione, per esempio, sono per lo più a favore dell’integrazione e dei confini aperti. Per questo il progetto europeo, pur con le sue difficoltà e crisi, ha un grande seguito presso i giovani: perché è un progetto che ha una vocazione cosmopolita”. Generalizzare sui giovani è spesso un errore, si vedono ragazzi istruiti e, appunto, cosmopoliti che protestano in piazza contro la riforma del lavoro (liberale) in Francia o che si appassionano per il socialismo di Bernie Sanders negli Stati Uniti. Se nel dibattito referendario britannico conta l’approccio ideologico, il protezionismo vs il libero mercato, come è possibile stabilire che i giovani sono per lo più eurofili? Per Kuper conta il concetto di apertura e di assenza di frontiere: sul resto si può discutere, ma sull’appartenenza a un mondo più aperto no. Molti giovani non sanno cosa sia un’Europa divisa, con le frontiere, senza voli low cost o la possibilità di studiare e lavorare più o meno ovunque. Secondo un sondaggio condotto da Opinium, il 53 per cento dei giovani britannici tra i 18 e i 34 anni è a favore del “remain”, mentre il 29 per cento è a favore del “leave”. C’è un problema però: il 52 per cento di questo gruppo di età dice di non essere sicuro di andare a votare. Di più: molti non si sono ancora registrati al voto, e se non lo fanno entro il 7 giugno non potranno comunque dare la loro preferenza il giorno del referendum. A Downing Street sono tutti molto preoccupati, il premier fa appelli continui per la registrazione, e la settimana scorsa ha organizzato una task force per convincere i giovani a non fare scemenze: andate a votare, e votate “remain”. All’incontro, guidato da uno dei consiglieri speciali del premier sull’Europa, Daniel Korski, erano presenti Facebook, Twitter, Google, Buzzfeed, veicoli indispensabili per raggiungere l’elettorato più giovane, assieme alla cosiddetta operazione “Swipe the Vote” lanciata su Tinder. L’obiettivo è, come ha spiegato più volte il guru di Cameron Lynton Crosby, “mobilitare mobilitare mobilitare”: gli indecisi sono secondo le rilevazioni più propensi a votare a favore dell’Europa. A gennaio gli indecisi erano calcolati attorno al 20 per cento dell’elettorato: ora questo gruppo si è quasi dimezzato per buona parte a vantaggio del “remain”, ma poiché i margini di vittoria sono risicati, i consiglieri del governo dicono di non sottovalutare la minaccia della pigrizia.
I gruppi di età sopra i 45 anni sono tendenzialmente più euroscettici: il blocco a favore di “Vote Leave” è sempre stato più anziano rispetto al pubblico che si vede ai (noiosi) comizi di “Britain Stronger in Europe”. Ma qualcosa è cambiato negli ultimi giorni. Secondo una rilevazione di ORB organizzata per il Daily Telegraph, la strategia di Cameron – paura, apocalissi, catastrofe – potrebbe davvero funzionare. Il 52 per cento degli elettori over 65 oggi è a favore dell’Europa, mentre il 44 per cento è contrario. Lo stesso sondaggio condotto nel marzo scorso segnalava che il 62 per cento era a favore della Brexit, e il 34 per cento contrario. Poiché questi gruppi di età sono considerati più propensi ad andare a votare, questa è una gran bella notizia per il governo britannico. Soprattutto perché c’è stato un cambio di direzione all’interno dell’elettorato conservatore tormentato dalla guerra civile in corso tra i suoi leader politici. Se a marzo il 60 per cento dei Tory diceva di sostenere la Brexit, ora il 57 per cento è a favore della permanenza del Regno Unito dentro l’Ue. I pensionati ora sono per il 52 per cento con l’Europa, mentre il 44 per cento ancora sostiene il “leave”. A marzo le percentuali erano all’opposto: il 34 per cento dei pensionati sosteneva il “remain”, il 62 per cento – la percentuale più alta in assoluta in tutti i gruppi di età – era a favore della Brexit. Gran parte del cambiamento è determinato dal voto maschile: oggi il governo ha l’appoggio del 55 per cento degli uomini, con il 42 per cento che sostiene la Brexit, quando a marzo il 55 per cento degli uomini era invece a favore della Brexit. Secondo Lynton Crosby, il vantaggio del “leave” continua a essere quello dell’affluenza: chi è convinto che la Brexit sia un’occasione imperdibile che capita oggi e poi mai più andrà sicuramente a votare. Gli eurofili sono più pigri, o meno motivati.
Il mondo del business e della City è tendenzialmente a favore della permanenza del Regno Unito in Europa. Il timore più grande per banche, aziende e investitori è l’instabilità, che già c’è come dimostra il calo degli investimenti in Europa dall’inizio dell’anno, e che con la Brexit sarebbe incontrollabile. Ma se i sondaggi rilevano un consolidamento del “remain”, il mondo del business ha avuto un’evoluzione opposta: ci sono più euroscettici oggi che a gennaio. Uno studio della Camera di commercio britannica mostra che dall’inizio dell’anno ad aprile la percentuale di sostenitori della Brexit è passata dal 30 al 37 per cento, mentre gli eurofili sono scesi dal 60 al 54 per cento. In una lettera pubblicata dal Telegraph questa settimana, 300 esponenti del mondo del business hanno fatto un appello a favore della Brexit, sostenendo che l’associazione all’Ue sminuisce il potenziale competitivo del paese. Sir Rocco Forte, che guida la catena alberghiera che porta il suo nome, dice che il Regno Unito è stato trattenuto dalla mancanza di impeto riformista del continente: anche se il suo business dipende molto da personale non britannico, Forte sostiene di poter “sopravvivere con regole diverse per l’assunzione di stranieri: questo è il paese che cresce più di tutti in Europa, è un magnete per i lavoratori”. La Commissione elettorale ha pubblicato i dati dei finanziamenti e si vede che nelle ultime quattro settimane i businessmen a favore della Brexit stanno donando a un ritmo che non si era visto finora, al punto che hanno superato il “remain” che pure è sostenuto da grandi imprenditori e da banche come Morgan Stanley e Citibank. L’accusa principale del mondo degli affari all’Europa riguarda la mancanza di competitività e l’eccesso di regolamentazioni, che trova un pubblico attento anche tra gli eurofili.
L’ultimo report sulla Brexit pubblicato dal Tesoro inglese questa settimana sostiene che un’uscita dall’Ue porterebbe l’economia del Regno Unito nel breve termine in recessione – il prodotto interno lordo diminuirebbe almeno del 3,6 per cento nel 2017/18 – causando una perdita di 500 mila posti di lavoro e la riduzione dei salari. Secondo il documento di 83 pagine redatto dal capoeconomista del Tesoro Dave Ramsden, la crescita del paese sarà intaccata da tre fattori: un “effetto di transizione”, per il quale le famiglie spenderanno di meno aspettandosi un periodo di maggiore povertà; un “effetto di incertezza” che porterà a una diminuzione degli investimenti delle aziende e dei consumi; e un “effetto delle condizioni finanziarie” determinato da un’instabilità dei mercati. Il pericolo di una “recessione tecnica” è stato evocato anche dal governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney: secondo le analisi interne, la sterlina crollerebbe “probabilmente in modo consistente”, l’inflazione aumenterebbe, mentre gli investimenti e i consumi si contrarrebbero. Per Carney, questo insieme di effetti costringerebbe la Banca centrale a decisioni molto complicate e comunque dall’effetto dilatato nel tempo: “Una politica monetaria non può immediatamente curare tutte le conseguenze dello choc”.
Un paio di mesi fa il Tesoro aveva pubblicato un altro report in cui sosteneva che nel lungo periodo (15 anni) l’economia sarà ridotta del 6,2 per cento rispetto a oggi, con una perdita netta per famiglia pari a 4.300 sterline. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha redatto un documento in cui spiega che un’uscita dall’Europa porterebbe a “uno choc persistente e in crescita” su tutta l’economia. “E’ un’illusione sostenere che il potere negoziale del Regno Unito sarebbe più grande fuori dall’Ue – ha detto il segretario generale dell’Ocse Angel Gurría – Non ci sono vantaggi nella Brexit. Soltanto costi che possono essere contenuti e opportunità che possono essere prese rimanendo in Europa. Nessuno dovrebbe ritrovarsi a pagare una ‘Brexit tax’”. Secondo l’Ocse questa tassa ammonterebbe a una media di 2.200 sterline annua per famiglia nei prossimi dieci anni.
Puntualmente a ogni report catastrofico pubblicato dal “remain” il campo del “leave” risponde dicendo che il governo sottostima – in malafede – la capacità di risposta del paese una volta che ritroverà sovranità e indipendenza. E’ da questa diatriba sulle previsioni economiche che è nata l’espressione “Project fear”, progetto della paura: i sostenitori della Brexit dicono che il governo sta puntando esclusivamente sulla paura, trattando gli elettori come dei “fessi” (copyright di Steve Hilton, storico guru del cameronismo che si è appena espresso a favore dell’uscita dall’Ue, aggiungendo anche che Cameron, nel suo profondo, è un euroscettico convinto: vai a fidarti degli amici) e lanciando messaggi catastrofici per mantenere lo status quo.
Questo è uno degli elementi più interessanti del dibattito sulla Brexit: il campo del “leave” ha sottratto al governo il monopolio sul cambiamento. Suona piuttosto strano, ma è così. Un governo che ha fatto del cambiamento e della rivoluzione politico-culturale del paese d’ispirazione liberale il suo manifesto si ritrova a dover difendere lo status quo, eliminando con toni apocalittici ogni tentazione di cambiamento. Prima che Boris Johnson e Michael Gove annunciassero il loro sostegno a favore della Brexit, la paura era materia quasi esclusiva del campo del “leave”, soprattutto della sua ala legata all’Ukip. Quando i due esponenti conservatori liberali sono arrivati illuminando la possibilità che la Brexit non fosse soltanto una scelta retrò di un mondo un po’ antiquato e un po’ rurale, ma un’occasione di rilancio, il governo ha iniziato a muoversi sulla difensiva, scegliendo toni apocalittici che fino ad allora non gli erano mai appartenuti. Non è un caso che uno dei report più citati e forse più credibili proposti dal campo del “leave” sia arrivato dagli “Economists for Brexit”, otto economisti di formazione thatcheriana. La tesi di fondo è: l’Europa è protezionista, uscirne garantirà al Regno Unito la libertà di commercio che gli serve per prosperare solitario nel mondo. Patrick Minford, uno degli “Economists for Brexit” che lavorò con la Lady di ferro, dice che l’Unione europea è “un’unione di protezionisti”, che i consumatori inglesi perdono il 4 per cento del pil a causa del protezionismo europeo, e che avrebbero enormi benefici dall’esclusione dalle regolamentazioni europee. Gerard Lyons, che è stato capo economista di Boris Johnson, spiega che i prezzi sono tra il 10-20 per cento più alti di quanto dovrebbero essere a causa delle politiche protezioniste dell’Europa. Secondo il modello finanziario progettato da Minford, la fuga dal protezionismo europeo garantirebbe un aumento del pil del 2 per cento, grazie anche alla possibilità di commerciare liberamente all’interno delle regole della Wto, senza i lacci dell’Ue.
Molti elettori dell’Ukip inorridiscono di fronte a queste analisi, ma come si diceva: alle urne non conterà perché si vota Brexit, il regolamento di conti può aspettare.
Boris Johnson (foto LaPresse)
Boris Johnson è l’uomo del momento, del mese, dell’anno. Non c’è politico nel Regno Unito che fa piangere e abbracciare come l’ex sindaco di Londra. Andrew Gimson, noto giornalista inglese che ha scritto una delle prime biografie di Johnson, “Boris: The Rise of Boris Johnson”, uscita nel 2006, dice al Foglio che Johnson “è come quei ragazzini che continuano a rispondere alla maestra, che la prendono in giro, facendola arrabbiare e mostrando anche le sue debolezze. E’ chiaro che gli altri studenti un po’ lo seguono, un po’ lo invidiano, un po’ lo evitano”. Boris è secondo Gimson uno “spirito libero” che si scontra con “gli uomini dell’establishment”, i Cameron o gli Osborne, ed è il motivo principale per cui il Partito conservatore si è spaccato ed è nata la guerra civile che i giornali chiamano in modo aggraziato “blue-on-blue clash”. Da un punto di vista strettamente ideologico, Michael Gove è più pericoloso per Cameron, perché ha le idee molto chiare, fa meno gaffe ed è un amico storico del premier. “Ma Gove con le sue buone maniere, con il suo tono pacato – dice Gimson – piace più ai Tory ribelli che agli elettori, i quali si nutrono di frasi a effetto e dei dettagli più irriverenti sulle storture delle regole imposte dall’Ue di cui parla sempre Johnson”. Non c’è dubbio: Boris è popolare. Secondo l’ultima rilevazione di YouGov, pubblicata dal Times, che dà il “remain” e il “leave” appaiati al 41 per cento, Johnson è considerato il più credibile: il suo consenso è al 31 per cento, davanti al leader del Labour Jeremy Corbyn, europeista scettico. Seguono il ministro-ribelle che si è dimesso Iain Duncan-Smith, Nigel Farage e soltanto al 18 per cento compare David Cameron. La battaglia strettamente personale, di leadership e di convinzione, la sta vincendo Boris Johnson, che però rischia di giocarsi la carriera se poi la Brexit dovesse perdere. “L’ex sindaco – dice Gimson – è spericolato ma tenace: questa potrebbe essere la sua ultima chance, è vero, ma credo che troverà il modo per evitare che la sia davvero. L’esito del referendum è imprevedibile, ma sono convinto che se Cameron dovesse vincere poi non vorrà vendicarsi, ma anzi farà di tutto per tenere insieme il partito”. Gimson pensa che nel rimpasto che ci sarà in ogni caso dopo il voto il premier potrebbe dare un ruolo di governo a Boris Johnson, anche confermare Michael Gove addirittura, perché non gli conviene incaponirsi contro i ribelli. “Ora è una partita di rugby, ci si azzuffa con violenza, ma poi ci sarà il terzo tempo con le pinte di birra”. Una fonte vicina al governo citata dall’Independent dà la possibilità di una riconciliazione nel Partito conservatore “a sud del 10 per cento”.
“Le questioni più importanti sono economia e immigrazione – dice il sondaggista Matt Singh – La sicurezza nazionale conta di meno. Aspettatevi di sentir discutere il ‘leave’ molto di immigrazione, e il ‘remain’ molto di economia”. Il dibattito sull’immigrazione nel Regno Unito spesso è una traslazione di quello europeo: quote, hot spot, numeri, controlli. Ma c’è un errore di fondo in questa equiparazione: Londra non ha aderito al Trattato di Schengen, quindi tutto quel che si dice relativamente alle regole dell’Europa continentale non valgono per la Gran Bretagna. E’ bene puntualizzarlo, perché altrimenti si perdono alcune sfumature che tra gli inglesi invece hanno parecchio peso. Secondo un report del National Institute of Economic and Social Research pubblicato questa settimana, la riduzione dell’immigrazione determinata da un’uscita dall’Ue porterebbe a un’economia inglese più piccola del 9 per cento nel 2065 con un pil pro capite ridotto dello 0,8 per cento. Le tasse dovrebbero aumentare in media di 402 sterline per persona per coprire i costi del sistema sanitario e pensionistico di una popolazione che, senza immigrazione, diventerebbe più anziana. Katerina Lisenkova, che ha redatto il documento, dice sintetizzando che “un’immigrazione più bassa ha in generale un effetto negativo sull’economia, anche se non si può parlare di recessione”. E’ divertente notare come il Financial Times, che è stato definito dai sostenitori della Brexit con un certo disprezzo “il tabloid pro europeo”, e il Daily Mail, che è un tabloid pro Brexit, abbiano raccontato lo stesso report in modo diametralmente opposto. Secondo il Ft, si tratta dell’ennesima dimostrazione che l’argomentazione “immigrazione” è uno spauracchio sventolato dai protezionisti dell’Ukip per terrorizzare gli inglesi, ma che in realtà è una delle risorse più attive del paese. Secondo il Mail, il report dimostra che le previsioni del governo sono apocalittiche e sbagliate, non ci sarà recessione, che cosa volete che sia una tassa di 400 sterline se non arriveranno più immigrati a toglierci il lavoro? Questo è soltanto un esempio di come la copertura mediatica di questo referendum sia piena di pregiudizi, i dati vengono utilizzati a seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere, al punto che gli elettori non sanno più a chi credere davvero. Come hanno raccontato molti politologi al Foglio, questa campagna così dura e animata, tendenzialmente incattivita e livorosa, con tanti soldi spesi, potrebbe rivelarsi inutile: valgono le convinzioni che si avevano alla fine del 2015, o da tutta la vita.
Secondo gli ultimi dati pubblicati a maggio, oggi ci sono 2,15 milioni di immigrati dal resto dell’Europa che lavorano nel Regno Unito, il numero più alto di sempre. Ieri mattina sono stati pubblicati i dati sugli immigrati, il secondo dato più alto di sempre: 330 mila persone nel 2015, di cui 184 mila provenienti dal resto dell’Europa. Se gli statistici dicono che gli incrementi non sono “significativi”, il target del governo non è stato raggiunto, e Johnson ha definito “scandalosa” la gestione fuori controllo dell’immigrazione da parte del governo. I lavoratori che provengono dall’Europa a 15 (prima dell’allargamento del 2004) prendono in media 1.725 sterline di benefit all’anno; chi proviene dai nuovi paesi membri dell’Ue prende in media 2.168 sterline l’anno; chi proviene da paesi fuori dall’Ue prende 2.666 sterline l’anno in media, mentre chi è nato nel Regno Unito riceve in media 2.509 sterline l’anno. Al momento vivono nel Regno Unito 3.3 milioni di immigrati europei (uno su tre è di base a Londra) e 5,4 milioni di immigrati extra europei. Storicamente la differenza tra immigrati europei ed extra europei è sempre stata più alta, ma ora il numero di immigrati europei è notevolmente cresciuto. Perché il mercato del lavoro nel Regno Unito è solido e attrattivo, dicono i sostenitori del “remain”. Perché li trattiamo meglio dei nostri cittadini, ribattono i sostenitori del “leave”. Il 75 per cento degli inglesi, secondo un sondaggio YouGov, pensa che ci sia troppa immigrazione nel paese, e il 61 per cento è convinto che con la Brexit la diminuzione sarà certa. Il fronte del “leave”, che accusa il governo di imbrogliare sui numeri dell’immigrazione e di non aver rispettato i target che si era dato per contenerla, vuole introdurre un controllo su chi arriva, equiparando cittadini europei ed extra europei. Ispirandosi al modello australiano e al suo sistema di punti, si vogliono così attrarre i migranti più talentuosi. Il governo dice che la questione è in realtà stata già risolta: all’interno del negoziato con Bruxelles, che ha preceduto l’avvio della campagna referendaria, Cameron ha fatto in modo di poter avere maggior flessibilità sui benefit, in modo da poter ridurre o controllare il flusso di migranti europei. Ma nessuno come l’Ukip maneggia il dibattito sull’immigrazione con tanta sgraziata efficacia.
Suzanne Evans, portavoce del gruppo parlamentare dell’Ukip, ha scritto sul Daily Express che l’Europa è un disastro per le donne. “Ci ha dato quella cosa ridicola che si chiama ‘tampon tax’, ha fatto aumentare i premi delle assicurazioni, ci fa pagare almeno il 20 per cento in più la frutta e la verdura al mercato, ci impone bollette astronomiche, per non parlare delle 575 donne che l’anno scorso sono andate a partorire nell’ospedale che avevano scelto e sono state mandate via: non c’è posto, per via dell’immigrate”. Secondo la Evans, l’Europa non sa nulla di parità di genere, parla ma non applica, e quanto ai diritti delle donne be’, il Regno Unito ha fatto tutto da solo, ben prima che l’Europa se ne accorgesse. L’obiettivo della Evans è chiaro: secondo una rilevazione di aprile, nel gruppo degli indecisi ci sono molte donne che sostengono di non comprendere a fondo i termini delle discussioni e di non trovare leader in cui identificarsi. Nei due schieramenti in effetti le donne sono pochissime: i titoli sono stati dedicati soprattutto alla Regina, che è stata tirata in modo scomposto nel campo della Brexit, e a Emma Thompson, insultata dal Sun quando ha detto che l’Inghilterra senza Europa è soltanto “un’isola grigia”. Piri Patel, sottosegreatario all’Istruzione lanciata da Cameron, è tra i volti più conosciuti nel campo del “leave”, dicono che infatti sarà la prima a saltare nel rimpasto di governo. Patel ripete spesso che Cameron “è isterico”, che non affronta il referendum con un tono professionale, che è spesso insultante, si lamenta che molti parlano male di lei – “venite a dirmelo in faccia” – e sostiene che la guerra “blue-on-blue” non potrà che risolversi con la Brexit. I parlamentari che vogliono organizzare un golpe contro il premier anche se dovesse vincere il referendum – servono almeno 50 firme, e molta determinazione – pare che facciano molto affidamento su di lei. Dall’altra parte, nel campo del “remain”, la più presente è la laburista Harriet Harman ,che ha denunciato più volte l’esclusione delle voci femminili dalla campagna, e dichiara: “Questa è una questione troppo importante per essere lasciata agli uomini”. Lo storico Robert Saunders, che sta scrivendo un libro sul referendum del 1975, sostiene che già allora il voto delle donne fu determinante, e in questi ultimi giorni la Brexit è diventata, tra le altre mille cose, una discussione sul femminismo.
La storia è entrata nella discussione referendaria nel peggiore dei modi possibili. David Cameron ha detto che un’uscita dall’Ue porterebbe a una frattura europea che non riguarda soltanto il futuro del Regno Unito e che rischia di vanificare il maggior risultato che il continente ha ottenuto in questi decenni di unione: la pace. Le intenzioni di Cameron erano buone, voleva rilanciare l’Europa come un progetto di pace, stabilità e prosperità, ma da quel momento si sono moltiplicati i riferimenti a macerie, distruzione, guerra, mondo finito. Boris Johnson, che è il più ciarliero in assoluto in particolare adesso che non è più il sindaco di Londra e può occuparsi a tempo pieno della battaglia referendaria, ha fatto di peggio: in un’intervista al Sunday Telegraph ha detto che “manca all’idea di Europa una lealtà sottostante: non esiste una singola autorità da comprendere e rispettare, e questo crea un vuoto democratico”. Secondo Johnson ogni tentativo di unificazione è destinato al fallimento se non alla creazione di problemi ancora più gravi: l’Ue persegue “con metodi diversi” (bontà sua) lo stesso obiettivo di Adolf Hitler, cioè unificare l’Europa sotto un’unica autorità. “Napoleone, Hitler e altre persone ci hanno provato, ed è finita tragicamente”, ha detto Johnson scatendando la prima reazione piccata da parte della comunità di Bruxelles, che fino a quel momento si era tenuta saggiamente fuori dal dibattito inglese.
Boris Johnson (foto LaPresse)
I riferimenti storici rischiano sempre di essere inopportuni, ma come ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times, quando la crisi identitaria è forte non si può fare a meno di ricorrere al proprio passato. Nella storia dell’appartenza del paese all’Europa c’è uno scontro ideologico tra liberali, ma c’è anche un confronto identitario. Nelle accademie inglesi non si discute d’altro se non del rapporto storico tra il Regno Unito e l’Europa. Tutto è cominciato con la creazione di un gruppo chiamato “Historians for Britain” guidato da David Abulafia, professore di Storia del Mediterraneo a Cambridge. Quando Cameron stava ancora negoziando con Bruxelles i termini di una revisione del rapporto con Londra, questo gruppo di docenti di storia pubblicò una lettera in cui sosteneva che il Regno Unito avrebbe dovuto accettare di restare soltanto “in una Unione europea radicalmente riformata” in grado di riflettere “il carattere distintivo della Gran Bretagna, che affonda le sue radici in una storia largamente ininterrotta dal medioevo a oggi”. Qualche giorno dopo un altro gruppo di storici, più ampio, rispose con un articolo su History Today intitolato “Fog in Channel, Historians Isolated” che confutava l’idea di una “storia largamente ininterrotta” sostenendo che “questa continuità sarebbe certo spettacolare, ma è illusoria. Il passato del Regno Unito non è né così eminente né così unico”. Riprendendo la discussione, che nel frattempo ha abbandonato i composti toni accademici, Rachman dice che gli storici si offendono se dici loro che rivisitano il passato britannico a seconda del loro posizionamento sul referendum, ma volendo semplificare: i primi sono più propensi a una Brexit rispetto ai secondi. Gli storici euroscettici sostengono che le caratteristiche del Regno Unito sono uniche e riconducibili a “continuità, moderazione e separazione”: la storia è “largamente ininiterrotta”; gli inglesi sono in genere più moderati degli europei come dimostra l’immunità storica al fascismo, al comunismo e al nazionalismo estremista; il Regno Unito ha sempre avuto nel suo dna il desiderio di tenersi un po’ separato dall’Europa continentale, per una questione valoriale e per uno sviluppo politico che da 500 anni è unico nel paese. Al contrario, gli storici eurofili sostengono che l’eccezionalismo britannico, che pure esiste, si è formato grazie a un dialogo continuo, a un’interazione, questa sì ininterrotta, con il continente: in altre parole non esisterebbe la cultura britannica se non ce ne fosse anche una europea. La sintesi l’ha trovata il professore di Storia europea a Peterhouse, Brendan Simms, autore di un libro intitolato “Britain’s Europe”, che non ha firmato nessuna delle due lettere. Simms dice che al referendum voterà per il “remain” perché ha paura che la Brexit possa spezzare l’Europa in maniera irrimediabile e questo avrebbe ripercussioni tremende anche per il Regno Unito. Come Winston Churchill, Simms pensa che l’Europa debba muoversi, anche con una certa fretta, verso gli Stati Uniti d’Europa, una federazione forte, di cui però Londra non farà parte. Un giorno il Regno Unito andrà per la sua strada, ma quel giorno non è oggi.
Se il Regno Unito esce dall’Europa, la tentazione verrà anche ad altri paesi. I tedeschi sono molto preoccupati, temono che l’onda isolazionista che già sta rubando terreno al placido europeismo di decenni possa portare a un cambiamento epocale del progetto europeo. La Reuters ha raccontato che a Bruxelles “molti diplomatici tedeschi e francesi, come di altri paesi, si riuniranno lunedì in un vertice organizzato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker” per pensare a un piano di contentimento degli effetti di un’eventuale Brexit. L’impensabile è ora possibile, l’Europa si trova, come spesso è accaduto in passato, impreparata. L’Italia ha sempre sostenuto il premier Cameron e la volontà di rifondare l’Europa in modo meno burocratizzato e competitivo: nel dettaglio, ci sono delle discrepanze tra Roma e Londra, ma il lavorìo diplomatico di appoggio è in atto da tempo. La Francia, che è spesso insofferente nei confronti dell’Inghilterra, è in realtà quella che più teme il contagio: vari sondaggi pubblicati in questi mesi a livello europeo dimostrano che l’elettorato francese è quello più propenso ad agguantare l’esempio britannico per farlo proprio. Così si moltiplicano sigle orribili, Frexit, Dexit (l’uscita della Germania), Nexit (uscita dell’Olanda), e soprattutto cresce il panico. Giusto per allarmarsi ancora un po’, si è riparlato molto in questi giorni di un thriller scritto dall’ex corrispondente a Francoforte della Reuters, David Crossland, che si intitola “Teutonia”. Il libro è uscito a novembre, ma in tempi di allerta-contagio è tornato attuale: parla di una crisi europea indotta dal protagonista, un magnate delle armi tedesco, che vuole riconquistare un pezzo di Prussia e per farlo fa un patto con la Russia. La crisi europea è un pretesto per risollevare l’istinto di dominazione tedesco e per allontanare la Germania dall’occidente. Crossland dice che “è un romanzo divertente, con un messaggio: non dimenticate la storia”.
Da oggi inizia il “purdah”, termine persiano che vuol dire tenda o velo e che segnala il divieto per i civil servant di intervenire nella campagna referendaria. Non ci saranno più report del Tesoro o della Banca centrale, non ci saranno più militari che, come hanno fatto due giorni fa, dicono che il Regno Unito è più sicuro fuori dal giogo europeo, non ci saranno più previsioni catastrofiche su scioperi o scontri in arrivo dopo il voto. Tecnicamente, il premier dovrà scriversi da solo i discorsi sul “remain”, anche. Ma questo non significa che non ci saranno attacchi, iperboli, affossamenti, vendette. Soprattutto non significa che non ci saranno sorprese.