Mancavano giusto gli scioperi allo “stato incompiuto” del Belgio
Roma. “A noi i sacrifici, a voi i benefici”, è lo slogan degli oltre diecimila manifestanti che ieri in Belgio sono scesi per le strade per protestare contro la riforma del settore pubblico. Il senso della mobilitazione è forse racchiuso tutto in queste parole, perché l’impatto delle politiche di austerità decise dal governo ha un peso diverso tra valloni e fiamminghi. I tagli al budget, alle pensioni e al sussidio di disoccupazione impongono un costo sociale più elevato alla minoranza linguistica francofona – che negli anni ha maggiormente usufruito del welfare state – rispetto a quella fiamminga. Perciò da settimane, sulla scia di quanto accade in Francia, gli scioperi paralizzano anche la Vallonia: dal settore dei controllori di volo, passando per i secondini delle carceri (la settimana scorsa decine di persone in fermo provvisorio sono state liberate per alcune ore per mancanza del personale di sorveglianza), fino a quello degli ultimi giorni che ha coinvolto le ferrovie. Contro le politiche di austerità decise dalla coalizione al governo i sindacati cattolici e socialisti hanno dichiarato un’opposizione durissima. E’ “l’assassinio del settore pubblico”, dicono le corporazioni della Vallonia. “Se lo stato non ci ascolterà, allora sarà la guerra e andremo fino alla fine”, ha assicurato Michel Meyer, presidente della sigla sindacale Cgsp.
Il Belgio è un paese abituato allo stato di emergenza continuo, dove il progetto federale, dettato dalla spaccatura tra i due grandi gruppi linguistici, non è mai giunto realmente a compimento. Dal 2014 il premier Charles Michel guida una coalizione di centrodestra che include tre partiti fiamminghi e uno francofono, una novità rispetto alla prassi che assicurava un’equa rappresentazione dei gruppi lingusitici a livello istituzionale. Soprattutto, il partito della Nuova alleanza fiamminga (N-Va) è riuscito nell’impresa di raccogliere oltre il 20 per cento dei consensi, un traguardo unico in Europa per un movimento così autonomista. “Le riforme del governo contestate in queste settimane potrebbero far soffrire economicamente la Vallonia, che rispetto alle Fiandre dipende molto di più dalle finanze statali, e creare un vantaggio negoziale in un’eventuale nuova stagione di riforme istituzionali dopo le elezioni del 2019”*, dice al Foglio Emmanuel Dalle Mulle, ricercatore del dipartimento di Sociologia presso l’Università di Lovanio. Ma mentre le riforme economiche restano ostaggio della competizione tra i gruppi linguistici, anche il processo delle riforme istituzionali è fermo, congelato dalla coalizione al governo almeno fino alla prossima tornata elettorale: “Dagli anni Settanta a oggi in Belgio le riforme sono sempre state un continuo compromesso, incapace di accontentare tutte le parti coinvolte”, continua Dalle Mulle.
Sotto accusa, dalla gestione della minaccia terroristica a quella dell’amministrazione locale, è l’inadeguatezza della classe politica: “Per sua natura, quella belga è una democrazia consociativa, che funziona bene nei paesi con grandi divisioni interne, in quanto evita lo scontro aperto tra i diversi gruppi sociali. Allo stesso tempo, però, il sistema assegna alle élite il compito di spartirsi le posizioni di potere”, dice Dalle Mulle. Così si è scavato un solco sempre più profondo tra la base e la classe politica. Un vuoto che il premier Michel ha provato a colmare proponendo, la settimana scorsa, un pacchetto monstre di referendum sui temi sociali, un’idea che ha incontrato una risposta gelida. Il dilagante "scetticismo del sistema politico belga riguardo alle forme di democrazia diretta scoraggia a sua volta la partecipazione della popolazione alle grandi scelte politiche", dice ancora Dalle Mulle. E’ quella che l’editorialista Béatrice Delvaux, sulle colonne del Soir, ha definito con toni allarmati “un male profondo e radicato” nella società belga. A farne le spese è allora la coesione sociale, il prezzo che uno uno stato incompiuto deve pagare.
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