Appunti dalla guerra in Iraq
Un viaggio sul fronte di guerra dove lo Stato islamico sta implodendo (“ma tornerà”), tra le mine nei prati, cadaveri-avvertimento e una finta alleanza che non parla di pace. Oltre a Falluja si prepara l’offensiva che vuole fare implodere l'Is. I commenti dei “boots on the ground”.
Sinjar, Iraq. Questo è un resoconto scritto durante una visita di circa dieci giorni alla gigantesca linea del fronte circolare che avanza – con lentezza da ghiacciaio – verso Mosul, che è la capitale dello Stato islamico in Iraq. Il fronte è tenuto da due forze molto diverse fra loro, l’esercito iracheno, che prova a spingere da sud e un poco da est, e i combattenti curdi, che presidiano il resto delle posizioni. La battaglia per Mosul non è l’operazione per prendere Falluja che si vede in questi giorni in tv. E’ un’offensiva che toccherà in modo definitivo il futuro della regione e metterà alla prova le capacità di sopravvivenza molto affinate nel tempo dello Stato islamico. Ecco cosa si vede.
Gli americani ci sono, ma non si mostrano
Oltre confine, in Siria, le forze speciali americane stanno facendo di tutto per farsi vedere e in questo modo segnare un punto politico a favore dell’Amministrazione Obama: guardate, siamo attivi sul fronte di Raqqa. In Iraq, invece, gli americani non si mostrano. Quando un ufficiale della Decima divisione di montagna interrompe un colonnello dell’esercito iracheno a mensa con il Foglio, in una base vicino Makhmour, lo fa con pochi cenni furtivi. Gli americani viaggiano in veicoli civili bianchi che sono blindati – ma si vede soltanto dall’interno – si infilano veloci nei cancelli delle basi, sparano con l’artiglieria da una base che è piazzata in modo strategico in uno degli angoli più nascosti e meno frequentati della piana di Ninive. La loro presenza si intuisce soltanto dal basso continuo dei jet che sorvolano la linea del fronte a caccia di bersagli e dai colpi sporadici d’artiglieria che partono dalla base dei marines.
“Vedi – commenta un ufficiale curdo con Il Foglio – quelli sono colpi troppo precisi per essere iracheni. Sono colpi americani”, dice indicando le esplosioni che centrano le sagome delle case due chilometri oltre la trincea. In Iraq i soldati americani fanno da collante per un misto di forze che già ora si guardano in cagnesco e che in loro assenza si sparerebbero fra loro. Una volta erano considerati come i cowboy spaccatutto. Oggi sono visti come deus ex machina riluttanti, capaci di risolvere una situazione ma soltanto dopo una lunga digestione politica.
Lo Stato islamico sta implodendo
Il segno visivo più importante del crollo dello Stato islamico si vede a Sinjar, una città dell’Iraq del nord che fino a novembre scorso era sotto il controllo del gruppo estremista. E’ un semplice cartello stradale e dice: Tal Afar, 23 chilometri. Tal Afar, il cuore dello Stato islamico, la piccola città satellite di Mosul dove sono cresciuti i comandanti più efferati, l’area a più forte infestazione jihadista – che non è mai stata domata per intero. Abitata non da arabi sunniti, ma da turkmeni sunniti, e quindi con un complesso da minoranza nella minoranza. A Tal Afar, dicono fonti locali al Foglio, lo Stato islamico si prepara a combattere una delle ultime battaglie di questa fase storica – perché non c’è dubbio che in futuro tornerà, seppure sotto altre forme, ma tornerà. “Nel quartiere centrale di Tal Afar ci sono le riunioni dei capi che decidono come dirigere la guerra, c’è un quartiere del centro dove non può entrare la gente normale, vi possono accedere soltanto i combattenti dello Stato islamico che hanno il tesserino plastificato del gruppo”. L’area si chiama al mantaqa al khadrà, in arabo vuol dire la Zona verde, come il distretto speciale e isolato della capitale Baghdad che ospita le istituzioni e le ambasciate straniere. E gli abitanti di Tal Afar sono i talafariyun, con fama di malavitosi, violenti e provocatori di problemi in tutto l’Iraq fin dai tempi di Saddam, che non a caso lì andava a scegliere i suoi generali, perché così erano detestati già alla partenza e pertanto erano più inflessibili e leali. E’ stata la differenza umana tra i talafariyun e gli abitanti di Mosul, sofisticati ma pigri, a segnare il destino della città: i primi sono arrivati a Mosul issando le bandiere nere dello Stato islamico spinti dalla voglia di riscatto sociale e di vendetta e hanno sopraffatto i secondi, guardateci, siamo brutti e rozzi, eravamo i vostri facchini, ora ci prendiamo le vostre ville.
Il cartello che indica la distanza da Tal Afar (foto di Daniele Raineri)
C’è stato un tempo, nel 2014, all’apogeo dell’espansione territoriale dello Stato islamico, in cui arrivare a venti chilometri da Tal Afar e dai suoi intrattabili inquilini sarebbe stato impensabile. Ora Tal Afar è sulla linea del fuoco. A febbraio alcuni elicotteri delle forze speciali americane sono atterrati in periferia e hanno catturato un capo dello Stato islamico. Presto o tardi, i curdi da nordovest spingeranno il fronte verso la città. Due settimane fa il portavoce del gruppo estremista, Abu Mohamed al Adnani, ha messo le mani avanti e ha postato su Internet un discorso di mezz’ora in cui sostiene che perdere città e territorio non equivale alla sconfitta per il Califfato. Il cartello stradale dei 23 chilometri però è più convincente, muta testimonianza che le vicende umane sono reversibili e che lo Stato islamico si sta rimpicciolendo.
Lo Stato islamico ha visto crisi peggiori
Il cartello per Tal Afar è a lato di una strada che corre dritta dal confine siriano alla città di Sinjar e poi da Sinjar fino a Mosul, che è la capitale dello Stato islamico e che nel contesto della guerra in Iraq contro il califfato è un po’ come Berlino nel 1945, l’obbiettivo finale e più importante. Oltre il cartello non si può andare. Per non incappare nei primi checkpoint dello Stato islamico occorre girare a sinistra e guidare verso nord, verso il massiccio montagnoso del Sinjar che si erge all’orizzonte, dove gli yazidi si sono arrampicati e hanno cercato salvezza nell’estate 2014 quando lo Stato islamico si è materializzato nel nord dell’Iraq. La strada a due corsie di Sinjar sembra una statale di campagna e ci si potrebbe scrivere un volume intero, tutto centrato sulla storia dello Stato islamico. Chissà quante volte l’ha percorsa il leader supremo, Abu Bakr al Baghdadi. “Molte volte”, dice una guida yazida, quando Baghdadi veniva a vedere le prigioniere yazide – “i suoi però non lo chiamano così, al Baghdadi: lo chiamano Abu Khaled”. Fonti curde dicono che il leader dello Stato islamico è ancora vicino a questa zona, spende molto del suo tempo pochi chilometri a sud della linea del fronte, in una fascia di villaggi e terreni agricoli ancora in mano allo Stato islamico, forse perché sono più isolati e difficili da sorvegliare o infiltrare rispetto alle grandi città come Raqqa e Mosul.
Un mezzo iracheno colpito da una trappola esplosiva appunti (foto di Daniele Raineri)
La strada di Sinjar è l’arteria vitale che ha permesso allo Stato islamico di prosperare durante gli anni della guerra contro gli americani, quando i volontari arrivavano dalla Siria con il beneplacito del governo di Bashar el Assad (che oggi è definito “difensore della cristianità”: si vede che in troppi si sono sintonizzati sullo show soltanto da poco, chiedete pure ai cristiani di Mosul quanto si sentivano protetti tra il 2003 e il 2010, quando erano esposti agli squadroni della morte che attraversavano il confine). A volte non era necessario avere dei contatti in Iraq, spiegavano le istruzioni che circolavano sui forum islamisti in quegli anni: bastava arrivare a Mosul e aspettare l’ora della preghiera in qualche moschea e “lì troverete i mujaheddin e saprete che sono loro”. Il traffico di volontari dello Stato islamico su questa strada era così intenso che quando nell’ottobre 2007 gli americani entrarono in una casa di Sinjar durante un raid delle forze speciali fu come se avessero vinto la lotteria: trovarono i registri compilati dai reclutatori con segnate tutte le informazioni utili a proposito delle reclute che arrivavano dall’estero. Quanti libici, quanti sauditi, quanti egiziani, da quale città, ospitati da chi, con quali capacità militari e quali aspirazioni: combattenti o aspiranti suicidi? Per la prima volta si è avuta un’idea della composizione, dei numeri e del funzionamento del gruppo. Dal 2007 in poi, lo Stato islamico è entrato in un collo di bottiglia. Ha perso uomini, soldi, risorse, leader. E’ quasi scomparso dalla scena. E’ come se tra il primo tempo e il secondo tempo, questo che si sta combattendo, ci fosse stato un intervallo di un paio di anni. Quest’area tra Tal Afar e Sinjar è rimasta uno dei pochi luoghi in cui il gruppo è sopravvissuto, prima di ridiventare un problema esplosivo. I civili della zona raccontano al Foglio di quando all’università i compagni di corso già qualche anno fa annunciavano il genocidio contro gli yazidi, e dicevano che sarebbe arrivato, come un evento naturale e inevitabile. Sinjar è una lezione sulla capacità dello Stato islamico di riaccendere l’ideoogia e di uscire dalle crisi.
L’“offensiva su Mosul”? Per ora è vuota
Vai a vedere l’offensiva dell’esercito iracheno per riprendere Mosul ed è un teatro vuoto, quasi non ci sono uomini, non ci sono mezzi, c’è soltanto una strada sterrata che in meno di due ore porta dal comando regionale di Ninive (è la provincia di Mosul) fino all’ultimo villaggio strappato allo Stato islamico, sulla prima linea. “Vittoria presto, grazie a Dio”, dice il motto sullo stemma del comando. E’ la stessa divisione che due anni fa abbandonò Mosul davanti all’avanzata dello Stato islamico. Ogni tanto per la pista passano alcuni veicoli militari, ma sono pochi: chi si aspetta un grande spiegamento di risorse, uno sbarco in Normandia in versione araba, resta deluso. Nell’ultimo avamposto sul fronte ci saranno sì e no cinquanta soldati iracheni, chiusi dentro una casa di campagna assieme a pile di scatole di munizioni, infilano i proiettili nei nastri delle mitragliatrici, qualcuno è in assetto da guerra, qualcuno ha i pantaloni della tuta Adidas. Fuori c’è un bulldozer corazzato, può scavare anche sotto il fuoco nemico, per alzare i terrapieni, che sono l’unica speranza in questo teatro di guerra, che è una prateria piatta che a ovest raggiunge il fiume Tigri, ancora più a ovest il confine con la Siria e arriva a Mosul una cinquantina di chilometri più a nord. Un soldato iracheno dice però che i terrapieni che si vedono dalla casa non li hanno fatti loro, sono quelli fatti dallo Stato islamico per difendersi. Sul tetto della casa fortino ci sono i cecchini, che guardano la prateria per individuare i cecchini degli altri. Ogni tanto si sente un colpo, “si annidano nell’erba, aspettano per ore”, dice un altro soldato iracheno. Parcheggiato davanti alla porta c’è un ibrido di questa guerra: un Humvee americano al quale è stata modificata la torretta per ospitare una mitragliera contraerea sovietica da 23 mm.
Un soldato iracheno (foto di Daniele Raineri)
Sul tetto si sente un boato, una colonna di polvere si alza a un chilometro dalla strada che porta all’avamposto. “Sono gli sminatori – spiegano i soldati mentre la colonna di polvere si stempera nel caldo del pomeriggio – hanno fatto esplodere una bomba”. Per ora l’operazione contro Mosul è così vuota che tutte le notti squadre di sabotatori dello Stato islamico attraversano i prati, raggiungono la strada sterrata e piazzano bombe. Mentre andavamo verso l’avamposto, ci eravamo imbattuti in un veicolo antimine dell’esercito iracheno distrutto da una bomba: i grandi rulli di metallo montati sul davanti per far esplodere le bombe in anticipo hanno fatto il loro lavoro, ma la mina era così potente che ha troncato i tubi d’acciaio che spingono i rulli e li ha fatti volare a lato della strada. Si tratta di un grande Mrap americano, con il pianale costruito a V per deflettere la forza dell’esplosivo, così pesante e costoso da riportare in patria che gli americani hanno preferito donarlo al governo iracheno: ora giace con il muso incagliato nella pista. Piazzare mine è la tattica preferita dalla guerriglia irachena fin dal 2003, sono passati tredici anni e non è cambiata, si è soltanto affinata. I guidatori dell’esercito ogni tanto provano manovre diversive, sterzano, escono dalla pista e rientrano, ma è un terreno ideale per piazzare le mine, si può scavare con le mani e le vittime non vedono il pericolo neanche quando non ci sono sopra. La verità è che tutto il fianco sinistro dell’offensiva è esposto allo Stato islamico, non c’è alcuna barriera, laggiù ci sono i villaggi in mano a loro e in mezzo soltanto erba. A un certo punto un soldato scende dal pick up, punta il binocolo, c’è una macchina che si muove e luccica sotto il sole. “E’ dello Stato islamico”. Temono che sia un’autobomba opportunista, che aspetta un bersaglio pagante. Sulla strada del ritorno siamo preceduti da un altro Mrap donato dagli americani, che sta facendo detonare le mine piazzate durante la notte. In pochi chilometri erano cinque, inclusa quella che ha azzoppato l’altro mezzo. Lo raggiungono, lo agganciano con un cavo, lo trainano con lentezza verso ovest, verso il comando. Il governo aveva annunciato l’offensiva contro Mosul a marzo, poi l’enfasi si è spostata a Falluja, molto più a sud, perché dall’area di Falluja partono gli attentatori che si fanno esplodere nella capitale Baghdad e che fanno centinaia di vittime a settimana. La differenza è che giù a Falluja ci sono le milizie sciite, i combattenti tribali e circa trentamila uomini in fermento, quassù l’esercito iracheno è da solo e traina piano i corazzati danneggiati verso casa prima che cali il buio.
Lo Stato islamico torna quello di prima
I soldati iracheni fanno strada verso la mosche di Kharbadan, che è il villaggio dove per ora si è fermata l’avanzata verso Mosul. Dopo la conquista di Kharbadan, un attentatore dello Stato islamico con addosso una cintura esplosiva ha attaccato la moschea. I soldati l’hanno ferito all’ingresso, lui è riuscito ad arrivare all’interno, non occorre avere visto Csi per capire che è riuscito ad accovacciarsi contro una parete e li si è fatto saltare in aria. Il suo corpo è ancora lì, devastato ma non quanto ci si potrebbe aspettare, anche se la detonazione ha fatto venire giù i pannelli del controsoffitto e ha fatto saltare i vetri alle finestre. L’attentatore che giace ancora con le sneakers ai piedi nella moschea è un avvertimento, riassume cosa succede quando l’esercito riprende terreno, lo Stato islamico torna a essere quello di prima, non più una giunta islamista che governa un territorio con velleità geopolitiche ma un network clandestino di stragisti, pronto a colpire i bersagli più paganti, anche apparentemente contro ogni logica: in una moschea. Il punto è che il ritorno del villaggio sotto il controllo dell’esercito e la presenza di soldati aveva di fatto riconvertito il luogo in un’adunata di murtaddin, di apostati, come tali condannati a morte (anzi: chi non li condanna a morte è esso stesso un murtad, un apostata). Colpire la moschea non è che la conseguenza logica di questa impostazione: dal punto di vista militare, perché più vulnerabile dell’avamposto a soli cento metri, e dal punto di vista teologico, perché iscrivibile nella guerra apocalittica contro i nemici dell’islam. Il corpo anonimo dell’attentatore vale come avvertimento: la conquista militare dell’Iraq non è un traguardo, il fronte si muove in un campo ideologico e quello richiede più tempo.
Un attentatore suicida dentro una moschea (foto di Daniele Raineri)
E se scoppia la guerra con i curdi?
La pista che porta dal comando dell’esercito iracheno alla prima linea dell’offensiva che si srotola piano verso Mosul passa per un’apertura in un terrapieno che separa l’Iraq dallo Stato islamico. E’ un terrapieno semplice, con davanti una trincea profonda meno di due metri, e taglia il terreno per centinaia di chilometri. Di qui è ancora territorio del governo iracheno o del governo regionale curdo, di là si naviga in una pianura controllata dallo Stato islamico. Non c’è più nessun fossato a bloccare la strada a eventuali camion bomba e gli avamposti sono isolati dal grosso delle truppe e devono fare conto soltanto sulle loro forze – ed è meglio se ragionano da minoranza: con prudenza tattica. L’apertura nel terrapieno è sorvegliata dai peshmerga curdi, i combattenti fedeli al governo di Erbil e non a Baghdad (non si possono scattare fotografie, come dice la regola in presenza di checkpoint e installazioni militari). Il fatto che l’esercito iracheno vada in prima linea contro lo Stato islamico per gentile concessione dei curdi spiega cosa succederà nei prossimi anni. La guerra contro gli estremisti è soltanto una fase di molte guerre che definiranno l’Iraq del futuro. I curdi al Foglio parlano senza misericordia dei soldati iracheni: se facessimo da soli, potremmo conquistare tutti questi villaggi ancora in mano allo Stato islamico in poche ore.
Se facessero da soli, però, si aprirebbe una crisi politica. Baghdad accuserebbe i curdi di approfittare della battaglia di Mosul per creare il nuovo Kurdistan indipendente – cosa che peraltro è già nei fatti, come può confermare chiunque spenda settimane per ottenere un visto per Baghdad e poi atterri all’aeroporto internazionale di Erbil, che di nome è sempre Iraq, senza bisogno di alcun visto. Senza contare che il governo centrale ha bisogno per lottare contro lo Stato islamico delle milizie sciite, la cui presenza crea nell’aria una carica elettrica con i combattenti curdi e con i civili sunniti. Forse il governo ha optato per liberare Falluja perché così può rimandare questa grana. Un mese fa a Tuz Khurmato, non lontano da Erbil, c’è stata un’anticipazione di quello che il futuro potrebbe riservare e curdi e sciiti si sono sparati per un paio di giorni. Se anche lo Stato islamico svanisse di colpo, non è detto che in Iraq ci sarebbe la pace. Per ora, si fa fronte comune.