Lo Stato islamico "di governo" crolla in Libia
Roma. Lo Stato islamico in Libia è sull’orlo dell’estinzione, almeno come entità amministrativa che governa città e territori. Dopo avere abbandonato le linee del fronte a Bengasi, a Derna e a Sabratha per ko tecnico, ora il gruppo estremista si prepara a una battaglia finale nella capitale Sirte. Se mai ci sarà, perché non è ancora certo: lo Stato islamico è davanti a una scelta, prepararsi a resistere (quasi) fino all’ultimo uomo dentro la città come ha fatto per esempio in Iraq a Ramadi e a Tikrit, oppure scegliere la dispersione strategica e sciogliere i ranghi. In questo secondo caso manderebbe gli uomini sulle piste desertiche che corrono per centinaia di chilometri verso il sud del paese – a mimetizzarsi nell’anarchia di quei luoghi, a diventare una banda girovaga come i gruppi locali di al Qaida (che non hanno mai avuto una “capitale”) e passare alla lotta clandestina.
Da ovest arriva verso Sirte l’esercito libico formato dai battaglioni di Misurata e fedele al governo del premier designato Fayez al Serraj – sponsorizzato da Nazioni Unite, Italia e Stati Uniti. Da ovest arrivano i soldati della Guardia delle installazioni petrolifere, un corpo creato nel Golfo della Sidra da un potente locale, Ibrahim Jadran.
Le forze di Misurata hanno raggiunto ieri la centrale elettrica poco fuori Sirte, che era caduta sotto il controllo dello Stato islamico il 9 giugno 2015. In quei giorni una foto ritrasse uno dei predicatori libici più importanti dello Stato islamico, Hassan al Karamy, fare visita all’installazione. Ora, in poco meno di un anno, il fronte è regredito allo stesso punto (dove ieri l’attacco di un camion bomba ha fatto 17 morti). A metà aprile le forze di Misurata avevano dato una pessima prova militare ed erano fuggite davanti a un’offensiva a sorpresa dello Stato islamico – che aveva superato il checkpoint di Abu Ghrain – ma ora hanno recuperato e sono arrivati a Sirte. Anche grazie alla presenza di consiglieri militari stranieri, britannici e forse italiani, ma non c’è per ora una prova diretta, se non la ritrovata prodezza militare.
Dall’altro lato di Sirte, a ovest, la Guardia ha preso le città di Bin Jawad e di Nawfaliya con combattimenti poco impegnativi. Il tratto di costa controllato dallo Stato islamico si è dimezzato in due settimane e ora è di circa 150 chilometri. In questa crisi tace il capo del gruppo, il saudita Abdul Qader al Najdi, che a marzo aveva annunciato la sua esistenza con un’intervista e poi è tornato nell’oscurità. Il Foglio allora lo aveva identificato, assieme con il ricercatore Marco Arnaboldi, con un veterano saudita conosciuto come Abu Habib al Jazrawy.
Si moltiplicano i rumor da Sirte. Si dice che i capi stiano fuggendo in barca, che un leader abbia provato a scappare con la cassa, che due leader siano stati giustiziati per risolvere un contrasto locale e che ci siano scontri fra i combattenti del gruppo di nazionalità libica e i combattenti venuti dall’estero. Tra i caduti c’è anche il figlio dell’ex coordinatore dei comitati rivoluzionari di Gheddafi, e questo alimenta le voci che vogliono alcuni ex gheddafiani arruolati con gli estremisti, come i baathisti in Iraq.
Se lo Stato islamico cede così in fretta, viene meno una delle ragioni per cui i governi dell’est e dell’ovest, Serraj e il generale Khalifa Haftar, dovrebbero negoziare una riconciliazione. Tuttavia, il business prende nota con interesse: due giorni fa a Parigi la compagnia francese di servizi petroliferi Technip ha firmato un contratto da 550 milioni di dollari con la Libia e con l’italiana Eni per aggiornare una piattaforma.