Hillary passa all'attacco geopolitico di Trump, sperando di archiviare Sanders
New York. Un discorso sulla politica estera per volare alto, librandosi qualche metro sopra le bassezze a cui Bernie Sanders la costringe con una campagna che la supera da tutte le parti in quanto a entusiasmo e capacità di penetrazione emotiva. Così, mentre il senatore del Vermont era nella rurale Modesto, in California, assieme a Susan Sarandon a parlare di rivoluzione, nella più cinematografica San Diego Hillary affettava toni presidenziali per spiegare al paese che Donald Trump è profondamente inadeguato per il ruolo di commander in chief. Questione di personalità e carattere, come si è detto fino allo sfinimento, ma la candidata ora vira sulle questioni di sostanza politica, entra nel merito delle posizioni di Trump, che pur essendo ondivaghe e inafferrabili, rivelano una certa impostazione. La politica estera è l’ambito in cui la Clinton si sente più avvantaggiata rispetto all’avversario repubblicano, ma è anche quello in cui il messaggio isolazionista può incontrare la frustrazione di una middle class più preoccupata dai posti di lavoro delocalizzati in Messico che dalla strategia americana nel Mar cinese.
Il contrasto fra la prospettiva nazionalista di Trump e quella internazionalista di Clinton è uno dei temi dominanti di una campagna generale sulla quale Hillary ha fretta di sintonizzarsi, e ieri ha preso a criticare l’avversario addentrandosi nei dettagli. La Nato che Trump giudica “obsoleta” è per Hillary la spina dorsale geopolitica, mentre le improvvide aperture alla Corea del nord sono pugnalate alla schiena alla leadership americana: “Le sue dichiarazioni mostrano che gli interessa piacere a Kim Jong Un più che sostenere i nostri alleati nella regione”, ha detto il consigliere clintoniano Jake Sullivan, in uno dei briefing di preparazione a un discorso che Hillary giudica “pivotal”, di svolta. Al quartier generale di Hillary non mancano di sottolineare che Dprk Today, uno degli organi d’informazione del regime di Pyongyang, ha chiamato Trump un “politico saggio”, mentre Hillary ha la “testa dura”. Dalle espressioni di stima per Vladimir Putin alla campagna per la Brexit fino all’idea che il Giappone si doti di armi nucleari per finirla con la storia dell’ombrello protettivo americano e del parassitismo degli alleati, la concezione di Trump dei rapporti internazionali non potrebbe essere più lontana da quella di Hillary, che propone consolidamento delle alleanze, più coinvolgimento americano nel mondo e pochissimi margini di trattativa con i nemici.
Dopo avere a lungo descritto Trump come un disturbato, ora lo descrive come un disturbato pericoloso, che esprime idee di politica estera prese dai manuali del lato sbagliato della storia. La manovra corrisponde a una più ampia strategia di attacco puntuale, nel merito politico, contro Trump che la campagna di Hillary sta coordinando con la Casa Bianca, anche se dicono che la scansione degli eventi è puramente casuale. Il giorno prima dell’attacco frontale sulla politica estera, Barack Obama dall’Indiana aveva attaccato Trump – senza citarlo, ma non era difficile intuire – perché ha promesso di revocare la Dodd-Frank, la regolamentazione finanziaria approvata dopo la crisi del 2008 per limitare il potere distruttivo delle banche. “L’idea di votare per qualcuno che permetterà ai banchieri di tornare a fare ciò che ha quasi distrutto la nostra economia non ha senso”, ha detto il presidente, forse dimenticando per un attimo che la grande ondata di deregolamentazione e sbrigliatezza che ha permesso ai banchieri di fare quello che hanno fatto è stata escogitata e messa in atto principalmente negli anni Novanta, quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton. Lo ha detto tartagliando, circostanza inedita per un presidente che ha fatto della performance oratoria il suo marchio, e i più maliziosi ci hanno letto un segno d’imbarazzo, una segreta reticenza nel sostenere a piena voce Hillary, ex avversaria con la quale ha vissuto anni di coabitazione forzata senza amore.