L'accordo scarlatto
Berlino. “Nicht besorgt”. “Non sono preoccupata”. Così la cancelliera tedesca, Angela Merkel, aveva liquidato qualche giorno fa le minacce del presidente turco Recepp Tayyip Erdogan secondo cui la Grande assemblea nazionale turca potrebbe mandare a gambe all’aria l’accordo di marzo fra il suo paese e l’Unione europea. Ieri, vista la reazione piccata di Ankara dopo la decisione del Bundestag di riconoscere il genocidio degli armeni in epoca ottomana, Merkel è dovuta intervenire di nuovo: le relazioni tra Germania e Turchia sono “solide”, e anche se esistono differenze ci sono anche molte cose che “uniscono i due paesi”. Come se non bastasse già lo scetticismo con cui, anche a Berlino, era stata accolta l’intesa Ue-Turchia sull’immigrazione, fortemente voluta da Merkel. L’intesa prevede che Ankara pattugli il Mar Egeo per bloccare i profughi siriani diretti in Grecia e che riporti nei campi profughi in Turchia fino a 72 mila rifugiati arrivati illegalmente nel paese ellenico sostituendoli con profughi regolarmente registrati. Finanziato da Bruxelles per sei miliardi di euro, il “resettlement agreement” premia poi Ankara con la liberalizzazione dei visti – oggi necessari a suoi cittadini per viaggiare in Europa – e rilancia l’annoso negoziato per l’ingresso della Turchia nell’Ue. La mancata implementazione di alcune condizioni tecniche e politiche (un allentamento della legislazione turca anti-terrorismo) ha però spinto l’Ue a rimandare l’annullamento dei visti, atteso per il 1° luglio.
Qualche preoccupazione, tuttavia, la cancelleria farebbe meglio ad averla. Assieme alla chiusura della via balcanica, l’accordo di rimpatrio ha portato a qualche risultato, ma le incognite restano numerose. A cominciare, dice al Foglio Emiliano Alessandri, analista senior del German Marshall Fund of the United States, dalla necessità per Merkel di “avviare un sodalizio diretto” con l’irascibile Erdogan, con l’aggravante che il presidente turco non era stato coinvolto in prima persona nella messa a punto dell’intesa con i 28. “Si è speculato che questa sia fra le ragioni del recente siluramento dell’ex premier Davutoglu”. Fra l’altro l’accordo non spiega cosa fare dei profughi già arrivati in Grecia e nei Balcani, ma l’errore di fondo è stato collegare l’emergenza umanitaria al tema dei visti e dell’adesione, rilanciando quest’ultima proprio nel pieno allontanamento della Turchia dagli standard europei. “Un passaggio azzardato che espone Merkel alle critiche del Parlamento e degli stati europei”, specialmente quelli centro-orientali, contrari a un rapprochement con Ankara. L’Europa confonde poi adesione della Turchia e liberalizzazione dei visti. La prima non piace quasi più a nessuno, ma la seconda favorisce il turismo, incentiva gli scambi accademici e i commerci: “La Turchia non è più un serbatoio dell’emigrazione; al contrario, grazie alla sua robusta crescita richiama a casa tanti emigrati in Europa e attira i lavoratori dei paesi affacciati sul Mar Nero”.
Sincera o meno, la promessa dell’adesione è l’ennesimo abbaglio dell’Ue. E’ vero che all’inizio del millennio l’allora primo ministro Erdogan guardava a Bruxelles, ma il suo potere non era saldo “e aveva bisogno dell’Europa per evitare che i militari mettessero fuori legge il suo partito”, dice Alessandri. Relegati i generali in un angolo, nel 2005 il sultano ha girato le spalle all’Ue e con una politica neo-ottomana ha invischiato la Turchia in conflitti diretti e per procura, portandola in rotta di collisione con Iraq, Siria, Egitto, Israele e Russia. Anche sul fronte interno, “Erdogan ha perso la capacità di interloquire coi suoi” e le dimissioni di Davutoglu lo dimostrano. L’Europa si è baloccata con l’idea di una Turchia in cui l’Akp avrebbe giocato un ruolo moderato, analogo a quello del Ppe: “Abbiamo immaginato la Sublime Porta come un ponte verso il Medio oriente. Invece il ponte è crollato e oggi la Turchia è più simile a una cinghia di trasmissione dell’instabilità regionale”.
Contrario all’accordo cucinato da Merkel e Davutoglu è anche Kristian Brakel del German Council on Foreign Relations. L’analista ricorda che ai 2,8 milioni di profughi presenti sul suo territorio Ankara non applica appieno la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. I siriani sono considerati ospiti “e già questa è una violazione dei loro diritti. La stessa reputazione della Turchia in tema di diritti umani avrebbe dovuto impedire all’Europa di firmare una tale intesa”. Brakel vede in Merkel la prima responsabile dell’aggravamento della crisi dei profughi, da lei accolti la scorsa estate “non per motivi umanitari, ma per impedire il collasso di Schengen: se la Germania avesse chiuso le frontiere, qualsiasi altro stato membro avrebbe potuto fare altrettanto”. E se pure l’allentamento dei visti appare sensato, il suo legame con la questione rifugiati “non ha ragione d’essere”: l’unico che ne trae un beneficio è Erdogan, “la cui presa sul potere non aveva bisogno di altri aiuti”. La recente legge che priva i deputati turchi dell’immunità parlamentare per alcune categorie di reato “è una terribile violazione di ciò che resta della democrazia in Turchia”. E’ vero che al riguardo Merkel si è detta “molto preoccupata” ma è troppo poco: i deputati filo-curdi dell’Hdp saranno processati per reati d’opinione proprio in base alla legge anti-terrorismo presa di mira dall’Ue e “ciò significa da un lato che l’accordo di rimpatrio è direttamente legato al processo di rimozione dell’immunità, dall’altro che l’Ue sta giocando al ribasso coi propri princìpi”.
“In linea teorica anche noi siamo contrari all’immunità”, dice il portavoce berlinese dell’Hdp, Erkin Erdogan, che con il sultano condivide solo il cognome, “ma la libertà di opinione è alla base di ogni regime parlamentare degno di questo nome”. Problemi interni alla Turchia? Forse, “ma Merkel ha visitato Erdogan quattro volte in sei mesi, offrendogli di fatto sostegno politico. La cancelliera ha stretto la mano a Erdogan anche in piena campagna elettorale, ma non mi risulta che abbia mai incontrato alcun esponente dell’Hdp”, conclude.