L'affanno europeo sulla Brexit
"Non doveva andare così”. Quando il 23 gennaio del 2013, in un discorso nella sede di Bloomberg a Londra, David Cameron annunciò la promessa di un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, il patto politico che il premier britannico aveva concluso con gli altri leader prevedeva “tutta un’altra storia”, spiega al Foglio un diplomatico europeo. L’accordo che era stato raggiunto nelle consultazioni preliminari con gli altri capi di stato e di governo avrebbe dovuto funzionare più o meno così: gli europei accettavano un po’ di dramma teatrale a uso interno per dimostrare a eurofobi ed euroscettici britannici l’impegno di Cameron a strappare un “new settlement” (un nuovo accordo) per il Regno Unito in Europa e un po’ di concessioni cosmetiche per placare l’ala anti europea dentro i Tory; in cambio il premier britannico garantiva che i conservatori si sarebbero riuniti attorno a lui per condurre la campagna a favore della permanenza nell’Ue, e l’impegno dell’establishment politico ed economico per convincere l’opinione pubblica a restare. Insomma, l’accordo non detto e non scritto era la quasi certezza che la Brexit non sarebbe rientrata nel campo della realtà immaginabile. E invece “Cameron non è riuscito a mantenere l’impegno, nonostante le concessioni sostanziali ottenute a febbraio” su immigrazione e garanzie per la City, dice il diplomatico. Così “il 23 giugno l’Europa alla prova dei sentimenti rischia di perdere contro l’Europa alla prova della ragione e del portafoglio”.
I sondaggi continuano a incrociare il “remain” e il “leave”. Tutti temono che l’Inghilterra profonda sconfigga la Londra cosmopolita. O che una “small thing” (un episodio minore) possa spingere gli elettori a dimenticare la “big thing” (la grande posta in gioco). Una donna violentata da un rifugiato afghano a pochi giorni dalle presidenziali in Austria “ha quasi portato all’elezione del primo capo dello stato di estrema destra in un paese dell’Europa occidentale”, ricorda un alto funzionario. Lo scenario da incubo per tutti, o quasi, non è più inimmaginabile. Soltanto tra i francesi c’è chi pensa a un futuro roseo per l’Ue senza la sua principale potenza militare e la sua seconda economia dietro alla Germania.
Il piano B, la salvezza dalla Bce. Niente è andato come doveva e oggi Bruxelles, Francoforte, Berlino, Parigi e Roma sono costretti a discutere in gran segreto piani B per fronteggiare la Brexit il 24 giugno. “A nessuno è stato consentito di mettere qualcosa per iscritto”, perché “in questa città (Bruxelles, ndr) è impossibile tenere un documento segreto”, spiega l’alto funzionario. In pochi minuti il piano per fronteggiare la Brexit finirebbe sulla prima pagina del Financial Times, destabilizzando la campagna elettorale. Di concreto per ora c’è solo il piano B messo in atto dai funzionari britannici della Commissione, che hanno richiesto in massa la nazionalità belga per evitare di perdere il posto in caso di Brexit. Ma le discussioni informali sono iniziate a tutti i livelli. E per capire quale sarà la priorità occorre guardare a Francoforte. “La Bce è pronta a qualsiasi eventualità”, ha detto ieri il suo presidente Mario Draghi. Secondo l’alto funzionario, “se le cose vanno male”, la prima cosa da fare il 24 mattina è “un accordo Bce e Banca d’Inghilterra per iniettare liquidità nel sistema bancario in modo da stabilizzare il mercato dei cambi”, spiega una fonte al Foglio. Il problema non è tanto il Forex, che dà già segnali d’allarme: “non deve esserci un prosciugamento di liquidità” nel mercato interbancario. “Il referendum britannico” costituisce un “rischio al ribasso” per la zona euro nel momento in cui la ripresa è modesta e fragile, ha ricordato Draghi. La Bce sarà dunque chiamata – ancora una volta – a giocare il ruolo di salvatore, intervenendo in soccorso di un settore bancario europeo profondamente interconnesso per evitare un prosciugamento di liquidità che avrebbe un impatto devastante tanto per il Regno Unito quanto per la zona euro. Poi la parola passerà ai responsabili politici, con i capi di stato e di governo convocati a Bruxelles il 28 e 29 giugno per un Consiglio europeo ordinario che rischia di trasformarsi in una straordinaria bagarre.
“Una complessità fenomenale”. Leggenda vuole che il piano per la Brexit sia conservato da Martin Selmayr, il capogabinetto del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, chiuso in un cassetto, appena sopra il piano con le procedure per la Grexit. Se la storia recente dei referendum in Grecia, Danimarca e Olanda insegna qualcosa, la risposta ufficiale delle istituzioni comunitarie sarà: “Tocca al governo di Londra dirci come intende procedere”. Selmayr ha convocato gli sherpa dei leader europei per tentare di coordinare una risposta comune alla Brexit. Sul piano politico, tra Berlino, Parigi e Roma si sono moltiplicati i contatti per lanciare un’iniziativa destinata a rassicurare sul futuro dell’Ue: completamento dell’unione economica e monetaria per indirizzare i paesi dell’euro verso un’unione politica (opzione preferita dall’Italia); maggiore integrazione in termini di sicurezza interna ed esterna (sostenuta dalla Germania); lotta europea alla disoccupazione giovanile (idea della Francia). Ma con le elezioni in vista in grandi e piccoli paesi dove le forze antieuropee guadagnano terreno nei sondaggi, c’è poco appetito tra i leader per altri trasferimenti di sovranità verso Bruxelles. “La Commissione sostenuta dalla Bce dirà che la Brexit rende ancor più necessaria un’unione politica per l’euro”, prevede l’alto funzionario. Ma i paesi del nord e dell’est che non partecipano alla moneta unica e il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, risponderanno che in questo modo “si amplia ulteriormente il distacco tra i 19 dell’euro e i 27 dell’Ue” incentivando altre Exit. Quanto al motore franco-tedesco, magari allargato al contributo italiano, è “illusorio pensare a balzi di integrazione”, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali in Francia e dalle politiche in Germania e forse Italia. Risultato: ancora una volta, saranno i mercati a dettare alla politica quel che occorre fare. “Chiederanno un calendario concreto” e il Vertice darà “mandato alla Commissione di negoziare con Londra il più rapidamente possibile l’uscita del Regno Unito sulla base dell’articolo 50 del trattato”, dice l’alto funzionario. Salvo il fatto che il negoziato sarà di una “complessità fenomenale”, “un incubo burocratico totale”, con centinaia di migliaia di pagine di legislazione da far modificare a Westmister e Bruxelles. “E’ impossibile da fare in cinque anni”. Figurarsi nei due previsti dall’articolo 50 del trattato. Nel 2018 le imprese britanniche potrebbero trovarsi fuori dal mercato unico senza poter accedervi su base di reciprocità.
L’avvertimento di Merkel. Con delicatezza, l’avvertimento è stato ribadito ieri dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel: “Non si hanno mai buoni risultati nei negoziati, in particolare su questioni molto importanti, quando non si è nella stanza e non si possono dare input”. In altre parole, se i britannici voteranno per andarsene, il Regno Unito sarà fuori, senza possibilità di rinegoziare più nulla. Al massimo, potrà diventare una grande Svizzera, costretta a subire la regolamentazione dell’Ue per essere parte del suo grande mercato interno, ma senza diritto di parola. L’intervento di Merkel, che come gli altri leader si era ripromessa di tacere durante la campagna referendaria, dimostra quanto la Germania tenga al Regno Unito come alleato dentro l’Ue. Nonostante il ritornello sull’asse franco-tedesco, Berlino è più in sintonia con Londra su innumerevoli dossier: libero scambio, politica economica e di bilancio, concorrenza. “Lavoriamo bene con il Regno Unito, in particolare forse quando parliamo di nuove regole per l’Ue”, ha spiegato Merkel. Senza i britannici, l’Europa sarebbe più statalista, più protezionista e più francese, cosa che alla fine è contro gli interessi della Germania. Merkel teme anche l’effetto accelerato della Brexit sulle spinte centrifughe in corso dentro l’Ue. Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca: i governi nazionalisti dell’est sarebbero tentati dal seguire l’esempio britannico. Ma anche nella Vecchia Europa la pressione cresce, con Marine Le Pen in Francia e Geert Wilders in Olanda. Le posizioni di Alternativa per la Germania o della Lega nord su euro e Ue troverebbero legittimazione politica, in caso di uscita del Regno Unito.
La serie sciagurata dei referendum. Il panico Brexit è rafforzato dalla serie nera dei referendum che hanno portato al rigetto dell’Ue da parte degli elettori. Il sol dell’avvenire europeista è stato oscurato per la prima volta il 2 giugno del 1992 dalla Danimarca, quando il 50,7 per cento degli elettori disse “no” al Trattato di Maastricht. Un episodio minore – il voto venne ripetuto con successo il 18 maggio del 1993, dopo la concessione di quattro opt-out (euro, diritti di cittadinanza, giustizia e affari interna, difesa comune) a Copenaghen – ma che ha aperto la strada ad altri “no”. Nel 2001 gli irlandesi hanno rigettato la ratifica del trattato di Nizza, salvo correggersi l’anno successivo grazie a un trucco analogo a quello usato con i danesi. Ma è il 2005 l’anno chiave, durante il quale la grande bolla comunitaria scopre di non essere amata dai suoi cittadini: il 29 maggio i francesi, seguiti tre giorni dopo dagli olandesi, hanno bocciato il progetto di Trattato costituzionale al 54,9 per cento, infliggendo all’Ue la più sanguinosa sconfitta politica e democratica della sua storia. A nulla sono valsi i “sì” della Spagna (il 20 febbraio) e del Lussemburgo (il 10 luglio ma con appena il 56 per cento dei voti): quando due paesi fondatori, e soprattutto la grande Francia dice “no”, non è possibile convincersi che gli elettori si sono sbagliati. Furono annullati i referendum sulla Costituzione europea in Repubblica ceca, Danimarca, Irlanda, Polonia, Portogallo e Regno Unito (quest’ultimo avrebbe potuto risolvere la questione britannica una volta per tutte). E non sono bastati dieci anni a risanare la ferita democratica. Nel 2015 i greci hanno detto “no” al piano di salvataggio europeo malgrado la minaccia di Grexit e i danesi alla piena partecipazione alle politica di giustizia e affari interni. Il 6 aprile scorso sono stati gli olandesi che, con il 61 per cento dei votanti, hanno mandato in crisi l’Ue con la loro contrarietà all’accordo di associazione con l’Ucraina.
Silenzi e sospiri. Sui referendum, compreso quello del 23 giugno, la tattica usata dall’Ue è un grande purdah (termine persiano che indica velo, tenda): autoimporsi il silenzio per non condizionare dibattiti definiti “nazionali”, anche quando hanno implicazione per tutti i 28. E’ il sintomo della profonda debolezza delle istituzioni comunitarie, incapaci di confrontarsi con i cittadini e dare battaglia per ciò in cui credono. Il grande purdah può essere violato, in particolare se i sondaggi sono positivi per l’Ue. Juncker è intervenuto definendo i sostenitori del “leave” dei “disertori” quando il “remain” era in testa, ma è ricaduto in un rumoroso silenzio nel momento del sorpasso del campo della Brexit. Il purdah è stato anche legislativo: la Commissione ha deciso di rinviare a dopo il 23 giugno le decisioni sui dossier più controversi, dal rapporto dei cinque presidenti sul futuro dell’euro alla concessione dello status di economia di mercato alla Cina. Tra silenzio e paralisi, c’è chi si prepara a dare tutta la colpa a Cameron, colpevole – agli occhi di molti europei – di aver condannato l’intero progetto europeo per un futile regolamento di conti interno al Tory. Ma in realtà il disfacimento è in corso da tempo e appare inarrestabile a prescindere da Cameron.
Così, dando voce alla grande tentazione dei francesi, lo storico corrispondente di Libération a Bruxelles, Jean Quatremer ha chiesto ai britannici di votare “leave” contro i loro interessi e per il bene europeo.
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