Cedere a Hillary o una disperata rivoluzione? Il dilemma di Sanders
New York. Jeff Weaver, il manager della campagna elettorale di Bernie Sanders, dice che il voto di oggi in California, New Jersey e altri quattro stati non cambia i piani dello sfidante: “Andare avanti, tenere aperta la campagna fino alla convention e convincere i superdelegati che Sanders è il candidato che ha più possibilità di battere Trump a novembre”. Weaver lavora con Bernie dagli anni Ottanta, quando era sindaco di Burlington, nel Vermont, ed è l’espressione della corrente degli irriducibili lealisti in una campagna che si è divisa in due tronconi, ora che le primarie democratiche arrivano al dunque. Da una parte, i fedelissimi di Bernie premono per una chiusura della campagna con il coltello fra i denti. La convention democratica, ha detto il candidato nel fine settimana, “sarà una ‘contested convention’”, un raduno aperto dove il socialisteggiante agitatore di folle cercherà di strappare a Hillary Clinton superdelegati decisivi per ribaltare una candidatura inevitabile. Sono questi che hanno alimentato la capziosa tesi secondo cui Hillary ha rubato la candidatura facendo leva su regolamenti delle primarie fatti per avvantaggiarla e penalizzare l’avversario meno connesso e blasonato.
Dall’altra, i sostenitori più pacati e calcolatori suggeriscono di procedere al riallineamento verso Hillary, ricompattando un Partito democratico che ha il vantaggio di una certa coesione rispetto agli avversari repubblicani fatti a pezzi da un uragano di nome Donald Trump. Fra questi c’è chi suggerisce di portare avanti uno strategico bluff per far sentire tutto il peso del popolo di Sanders e alzare il prezzo politico della sua dipartita. Il dato più esibito in questo senso è la media dei sondaggi fatta da Real Clear Politics, che dà Sanders dieci punti in vantaggio su Trump in un’eventuale corsa alle elezioni generali, divario che si riduce a uno zero virgola quando il candidato repubblicano è messo a confronto con Hillary. In California, Sanders cerca una vittoria improbabile e simbolica, tanto che Hillary probabilmente non avrà nemmeno bisogno dei voti della costa pacifica per chiudere formalmente una partita già chiusa nella sostanza: un’affermazione netta in New Jersey potrebbe congelare ogni speranza qualche ora prima che i risultati della California, ritardati per via del fuso orario, inizino ad arrivare. In questi giorni in cui i toni populisti della piazza di Sanders sono particolarmente in contrasto con gli atteggiamenti presidenziali di Hillary, che fa discorsi geopolitici e dice che da domani si concentrerà sulla “unificazione del Partito democratico”, il senatore ripropone accuse tratte direttamente dal manuale del Partito repubblicano.
Ora insiste sul carattere “problematico” delle donazioni fatte da soggetti stranieri alla fondazione Clinton quando era segretario di stato; nelle ultime settimane ha lavorato duramente per contrastare non soltanto Hillary ma l’intero establishment democratico. L’opposizione al capo del Partito democratico, Debbie Wasserman Schultz, in favore di un outsider che la incalza da sinistra, è il segno più evidente che il disaccordo dei lealisti di Sanders è più profondo di una normale dialettica fra candidati alle primarie, e ha a che fare con la concezione di fondo del partito. La guerra termonucleare scatenata da Trump a destra ha fatto apparire più piccolo e meno esplosivo il dibattito interno alla sinistra, ma ora le turbolenze si sentono eccome. La figura incaricata di disinfettare e ricucire le ferite che si sono aperte in queste primarie è niente meno che Barack Obama che, fra cene di fundraising e incontri a porte chiuse, lavora per serrare i ranghi del partito. A un evento in Florida ha messo in guardia i facoltosi finanziatori democratici che lo ascoltavano: “Possono succedere cose strane in un’elezione del genere se non lavoriamo sodo”.
I conservatori inglesi