Non possiamo permetterci uno stato fallito sulla porta di casa
Roma. La ricetta del diritto internazionale classico per identificare uno stato non contiene molti ingredienti: un territorio, un popolo, un governo da esso eletto che abbia la capacità di assicurare i bisogni primari della gente, di garantire la sicurezza interna attraverso la polizia, quella esterna con un esercito, di battere moneta, di gestire le proprie risorse naturali. Una volta messo insieme tutto ciò, interviene il riconoscimento della comunità internazionale che sancisce la possibilità dello stato in questione di intrattenere relazioni con i suoi pari e di essere ammesso nel club di coloro i quali sono considerati come entità sovrane. Tale ammissione si porta dietro una serie di doveri (alcuni molto elementari come quello di garantire il rispetto dei diritto umani dei propri cittadini) e di prerogative quali l’uguaglianza rispetto agli altri membri e il divieto degli stessi di ingerire nei rispettivi affari interni.
Se tutto ciò è vero, oggi la Libia non è uno stato. Ci troviamo infatti di fronte a tre governi, nessuno dei quali esercita veramente il controllo del territorio. Uno di essi è espressione di una certa volontà popolare e godeva del riconoscimento internazionale, che è stato però ora trasferito a un altro organo che – pur non avendo ancora ricevuto un pieno supporto interno – l’ Onu e l’Unione europea identificano come proprio unico interlocutore legittimo. Insomma, chi è considerato legittimo da un punto di vista internazionale non ha infatti ancora un completo e definito avvallo popolare. Come si è arrivati a tutto ciò? Dal 2014 la Libia ha di fatto due parlamenti e due governi. Uno che risiede a Tobruk e l’altro a Tripoli. Entrambi si proclamano legittimi rappresentanti della Libia. Il primo – che godeva dell’avvallo della comunità internazionale – ha oggi il supporto di Egitto, Russia e in parte degli Emirati Arabi; il secondo di Qatar, Turchia, Sudan. Mentre i due parlamenti e due governi si confrontano, circa 1.800 milizie con radici territoriali, ideologie e forme di finanziamento differenti – ma che sono tutte poco ortodosse – di tanto in tanto si alleano e molto più spesso di combattono. Nel frattempo, l’Isis, più organizzato, ha preso il controllo di circa 300 chilometri di costa avendo come propria base Sirte, un tempo enclave gheddafiana, e presìdi in Cirenaica. Alcuni mesi fa, di fronte al Comitato intelligence del Senato, il direttore della Cia John Brennan ha affermato che la Libia è il teatro di operazioni più importante per l’Isis dopo quello siro-iracheno.
Nel 2014 è dunque cominciata una intensa attività diplomatica, attraverso rappresentanti speciali delle Nazioni Unite, che ha portato nel dicembre 2015 a un accordo sottoscritto da alcuni esponenti libici per la creazione d’un Presidential Council e di un governo di unità nazionale sotto la guida di Fayez al Sarraj che lo scorso marzo si è trasferito con alcune personalità nella base navale di Tripoli. Il Presidential Council è l’entità riconosciuta come legittima dalle Nazioni Unite. Il Parlamento di Tobruk, che dovrebbe sostenere il governo di unità nazionale, non riesce però a trovare al suo interno il consenso per farlo. Sono poi in molti in Libia ad accusare la comunità internazionale per quella che – a loro parere – è un’ ingerenza negli affari interni della Libia. Un sentimento che è stato alimentato dalla decisione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di emanare sanzioni (congelamenti di conti e restrizioni ai viaggi internazionali) nei confronti dei politici che ostacolano il processo di formazione del nuovo governo, tra i quali rientra lo speaker del parlamento di Tobruk, Agilah Saleh. Di fatto le istituzioni sono ancora divise. Alcune giorni fa, il ramo della banca centrale che siede in Cirenaica, e che si contrappone a quella di Tripoli, ha richiesto alla zecca russa di stampare banconote per 4 miliardi di dinari libici, banconote che sono state dichiarate false dal Presidential Council (un accordo è stato poi raggiunto tra le due istituzioni). La Libia ha bisogno di trovare un proprio equilibrio, imperativo che la comunità internazionale sente come indifferibile perché nessuno può permettersi che diventi un failed state. Ne risentirebbe l’equilibrio intero della regione che va dall’Algeria alla Palestina, con conseguenze sconosciute per l’ Europa intera. Ma ci troviamo di fronte a un dilemma come John Clapper, direttore della National intelligence americana, ha ben illustrato di fronte al Senato americano. L’esigenza di un intervento diplomatico e militare da parte della comunità internazionale deve essere contemperata con il rischio che tale intervento faccia naufragare il delicato negoziato politico in corso tra le differenti istanze libiche, giustamente gelose del proprio inalienabile diritto all’autodeterminazione.
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