Spose bambine
"C’era una volta una bambina di nome Nojoom che viveva in un villaggio yemenita”. Potrebbe essere l’inizio comune di una favola bella invece è il racconto – fatto al mondo – di una storia vera e atroce, quella di un matrimonio forzato e precoce, quella di una sposa bambina di 9 anni che a 10 anni ha il coraggio di chiedere il divorzio. L’anteprima del film “La sposa bambina” – sostenuto da Amnesty International – ha vinto il premio come miglior film al Festival international du film de Dubai 2014. La regista Khadija al Salami – prima donna yemenita a diventare regista e produttrice – si è ispirata alla sua storia personale (data in sposa a 11 anni e costretta a subire le violenze del marito) e alla storia vera, raccontata nel libro “I am Nujood, age 10 and divorced” scritto da Nojoud Ali e dalla giornalista franco-iraniana Delphine Minoui, tradotto in quindici lingue ed edito in Italia da Piemme.
Ma andiamo per ordine ed entriamo nel merito. La yemenita Nojoud Ali è diventata un’icona internazionale dei diritti umani e della battaglia contro i matrimoni forzati. Il racconto è autobiografico: Nojoud è costretta dal padre a sposarsi a 9 anni con un trentenne che la picchia e la violenta; Nojoud riesce a fuggire e torna dalla sua famiglia per chiedere aiuto. Respinta, sarà un giudice del tribunale a salvarla, insieme all’avvocato Chadhar Nasser che la difenderà gratuitamente, accusando di stupro il marito della sposa bambina. La battaglia processuale si conclude nel 2008 con l’ottenimento del divorzio, che verrà accordato a Nojoud al prezzo di mille riyal (circa 360 euro) come risarcimento al marito per la rottura del contratto matrimoniale. A 10 anni Nojoud è la divorziata “più giovane” del mondo. A molte – troppe – latitudini geografiche la pratica arcaica dei matrimoni forzati è sopravvissuta anche all’avvento del Terzo millennio; il “rito tribale” è rimasto un fenomeno solido, diffuso e sommerso, un retaggio antico con qualche innesto islamico estremista e radicale che legittima i matrimoni dei minori, di bambine nella totalità dei casi, con uomini adulti o anziani. E anche dove – con molto sforzo e tante battaglie – si è arrivati a fissare un’età minima per contrarre il matrimonio, il diritto consuetudinario finisce per prevalere e si stima che nel mondo siano milioni le spose bambine, dall’Africa all’Asia, dall’America Latina all’Europa orientale. Ma non solo: accade anche in alcune comunità immigrate che vivono nel nostro paese e nel resto d’Europa ed è per questo che l’art. 37 della Convenzione di Istanbul insiste sui Matrimoni forzati e richiede ai contraenti misure di “penalizzazione dell’atto intenzionale di costringere (…) a contrarre matrimonio”, comprendendo qualsiasi forma di costrizione al matrimonio nonché i matrimoni forzati precoci.
E’ stato calcolato che nel 2013, nei paesi in via di sviluppo, una bambina ogni tre si sposa prima dei 18 anni, una su nove addirittura prima dei 15 anni. Le bambine prive di istruzione hanno il triplo di probabilità in più di sposarsi prima dei 18 anni rispetto a quelle con un livello di istruzione secondario o più alto. E risulta elevatissima la mortalità delle spose, costrette a rapporti sessuali prima della pubertà. Elevata è anche la mortalità materno-infantile nei parti. Secondo Human Rights Watch, il 52 per cento delle ragazze yemenite viene dato in sposa prima dei 18 anni e il 14 per cento è costretto al matrimonio prima dei 15 anni. In Iran, l’età legale per sposarsi è di 13 anni, ma con il consenso d’un tribunale ci si può sposare anche prima. In Asia meridionale, quasi il 50 per cento delle ragazze viene dato in sposa – per decisione dei padri e dei nonni – prima di avere compiuto 18 anni. Secondo i dati dell’Unicef, al Bangladesh spetta il record mondiale negativo del paese con il tasso più alto di matrimoni di bambine con un’età inferiore ai 15 anni. In Burkina Faso è diffuso il matrimonio forzato infantile di bambine di 11 anni e in Afghanistan di 9.
Se non fosse stato per la determinazione di Maria Bashir, procuratrice capo di Herat e prima donna in Afghanistan a ricoprire questo incarico, non ci sarebbe stata nel 2009 quella revisione del diritto di famiglia che ha fissato i 16 anni come età minima per contrarre matrimonio. Una conquista recente e disattesa, ma pur sempre uno strumento di tutela in un paese dove la condizione femminile resta aberrante, i diritti umani calpestati e dove i matrimoni forzati – combinati e mercanteggiati dalle famiglie – sono una prassi e le bambine sposano uomini sconosciuti, quasi sempre molto più grandi di loro o addirittura poligami. L’Afghanistan è il paese dei suicidi femminili e delle “autoimmolate”, le donne che si danno fuoco per disperazione, per protesta, per sfuggire alle violenze familiari e ai matrimoni forzati. Nel mondo sommerso delle immolate sempre più spesso ricorrono le storie delle spose-bambine che si ribellano. Storie di donne e di bambine afghane, di Herat, di Kabul ma anche dei villaggi sperduti tra le montagne dell’Hindukush, “fantasmi velati senza voce né diritti”, “colpevoli” di disobbedienza rispetto alle leggi tribali e alla tradizione. La condanna per chi si ribella è punita con una pena da scontare in carcere. E oltre la pena detentiva c’è la condanna sociale e l’emarginazione da parte della comunità.
“Mai più spose bambine” è la campagna di Amnesty International legata al film di Khadija Al Salami – che ha vinto anche il premio come miglior film 2016 all’Award London Asian Film Festival. Non uno slogan ma una condanna della pratica mondiale dei matrimoni indotti e un impegno globale per difendere i diritti dell’infanzia e all’infanzia. Diritti sanciti e tutelati anche dalle convenzioni internazionali, mentre il mondo sembra seduto e quasi assuefatto davanti alle spose bambine come di fronte agli orchi schifosi di casa nostra, che violentano i bambini e li gettano dal terrazzo o si macchiano in pubblico e ancor più nel privato di quel delitto immondo che è ogni atto di pedofilia.
Dalle piazze ai palazzi