Brendan Simms ci dice che se l'Europa sarà forte la Brexit ci sarà. Non oggi
Milano. L’Europa dovrebbe continuare a integrarsi, a unirsi, a rafforzarsi, ma quando il progetto politico sarà completo inevitabilmente il Regno Unito non potrà farne parte: sarebbe una concessione di sovranità che Londra non potrebbe mai accettare. La Brexit sarà un giorno inevitabile, se davvero l’Europa vuole diventare un continente forte, ma quel giorno non è oggi. Questa è la tesi dell’ultimo libro di Brendan Simms, “Britain’s Europe: a Thousand Years of Conflict and Cooperation”, e se a prima vista può sembrare bizzarra, non la è. Non è nemmeno nuova: è l’idea che aveva Winston Churchill, quando parlava degli Stati Uniti d’Europa.
Simms è uno storico irlandese, insegna a Cambridge, è il presidente del think tank Henry Jackson Society, che conta tra i suoi firmatari/fondatori il ministro della Giustizia Michael Gove, uno dei leader di “Vote Leave”, la campagna ufficiale per l’uscita dall’Ue al referendum del 23 giugno. Il pensiero di Simms è la sintesi perfetta tra i liberali europei e i liberali britannici, ma è un pensiero che non si è incarnato né nei negoziati di David Cameron con Bruxelles (Cameron non vuole un’Europa più unita) né nella campagna per la Brexit, che per lo più disconosce i secoli di cooperazione e di intesa tra il continente e l’isola e anzi sostiene che l’Europa abbia sempre cercato di attentare alla naturale e sana insularità britannica.
“Oggi un’uscita del Regno Unito dall’Ue non è nell’interesse britannico – dice Simms al Foglio – Sarebbe un’uscita convulsa, negoziata male e in emergenza, e l’instabilità che ne deriverebbe sarebbe dannosa anche per gli inglesi”. Non voterà al referendum Simms, “sono un irlandese – spiega – credo che questa decisione spetti davvero soltanto agli inglesi, è in gioco il loro futuro”, ma è abbastanza chiaro che la Brexit oggi per lui non è una buona scelta. Simms scrive su molte riviste, ha un modo armonioso di raccontare la storia che permette di leggere i suoi tomi – ha scritto parecchi libri – senza annoiarsi né provare quel fastidio tutto continentale che ispirano i britannici quando interpretano la storia. E’ convinto che sia la politica estera a definire la storia dei paesi e dei continenti, ed è per questo che non soltanto si occupa primariamente di relazioni internazionali ma non ha nemmeno voluto entrare nella diatriba tra gli storici nata in vista del referendum. Storici per l’Europa, storici contro l’Europa, Simms in mezzo: non firma appelli, non vota, non si fa tirare dentro alla campagna, anche se molti animatori di questa campagna sono persone che conosce, e che stima. “Non c’è Brexit senza Euroexit”, dice Simms ed Euroexit significa un’uscita dell’Ue dai compromessi cui si è piegata finora, annacquando le premesse liberali di unificazione su cui era nata – e si è piegata anche per assecondare gli stessi britannici che ogni volta che vedono scritto da qualche parte “closer union” diventano rabbiosi. Cioè il Regno Unito deve stare dov’è, è l’Europa che deve andarsene? Sì, è più o meno così.
Ricominciamo da capo. Winston Churchill, nel settembre del 1946, disse che c’era bisogno di “un atto di fede” per salvare l’Europa “dalla miseria infinita e soprattutto da un destino tragico”. Soltanto la creazione “di una specie di Stati Uniti d’Europa” avrebbe, secondo Churchill, salvato il continente da un caos ulteriore. Era la fine della Seconda guerra mondiale, oggi la situazione non è naturalmente così drammatica, ma “è allarmante”, dice Simms, perché molte sfide stanno, messe tutte insieme, mettendo in ginocchio il progetto europeo. La questione britannica in particolare. Da quando è iniziata la crisi economica, con i salvataggi, le possibilità di uscita degli stati membri, l’ascesa dei populismi e le guerre alle porte del continente, l’Europa ha ricominciato a interrogarsi sulla sua natura e sul suo futuro: la tentazione di ricominciare a pensare con gli occhi dell’interesse nazionale e dei nazionalismi è diventata prevalente, ma secondo Simms la via della sopravvivenza va nella direzione opposta: “Ci vuole un’Europa britannica”. Simms spiega che il contributo del Regno Unito in Europa è sempre stato importante e generoso – nel suo ultimo libro c’è un capitolo che s’intitola “Il nostro destino è stato quello di aiutare l’Europa a crearsi” – e che “il modello di unificazione del Regno Unito dovrebbe ispirare l’unificazione politica dell’Unione europea”. Simms racconta che “l’atto di unificazione anglo-scozzese del 1707 pose fine a secoli di guerre aperte o latenti tra i due vicini che subivano un’influenza ostile dal continente”, in particolare dalla Francia di Luigi XIV. Così Inghilterra e Scozia si imbarcarono in una partnership parlamentare, economica e di politica estera che fece cessare le loro ostilità e allo stesso tempo permise di avere un potere contrattuale più forte nei confronti dell’Europa. Fu un’esperienza talmente di successo che diventò un modello anche per gli americani quando, alla fine del Diciottesimo secolo, tredici colonie si staccarono dal Regno Unito. L’Europa invece è “una valuta senza uno stato e una unione politica senza strumenti militari e senza un comune sentimento di una missione per il proprio continente”. Questa è la fragilità dell’Europa, e questo è il motivo per cui l’Europa dovrebbe sostanzialmente “uscire da se stessa”.
Nel dibattito referendario i riferimenti storici sono stati utilizzati da entrambi i campi per sostenere la propria tesi. Le guerre, le macerie, le alleanze, le sopravvivenze sono state descritte e rimaneggiate a seconda delle esigenze retoriche. I giornali si sono riempiti di interventi scorbutici di molti storici che provavano a rimettere insieme i cocci di racconti improvvisati: ma il fact checking in realtà non è stata una delle forme più popolari di risposta alle castronerie dette negli ultimi mesi. La verità non importa poi così tanto quando si ha a che fare con un sentimento ancestrale come l’euroscetticismo. Però la domanda a Simms va fatta: chi, nella campagna referendaria, ha detto la stupidaggine più grande in termini storici? “Devo dire che ce ne sono state parecchie – risponde Simms – ma il premio forse va a Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra, quando ha detto che ‘l’Unione europea è un tentativo di fare quel che ha fatto Hitler con altri metodi’. Da uno storico churchilliano come lui non me lo sarei aspettato. Hitler non voleva una soluzione paneuropea, ma un’Europa di stati indipendenti e slegati tra di loro. E poi non possiamo dimenticare che il progetto stesso di un’unione europea nasce per difendersi dal nazismo”. Per non parlare di quanto è stato citato l’euroscetticismo di Churchill a sostegno della Brexit: Simms ha scritto in un intervento sulla rivista New Statesman che certo, Churchill era un euroscettico, ma era anche convinto che l’Europa continentale dovesse unirsi, dovesse creare un argine agli estremismi. Nel 1930 aveva scritto: “Siamo con l’Europa, ma non dell’Europa. Siamo legati ma non compromessi. Siamo interessati e associati, ma non assorbiti”. Che è poi quel che sostiene Simms oggi per il futuro del Regno Unito.
Secondo lo storico il tentativo degli europei di tenere insieme tutti, anche gli inglesi che in realtà di questo progetto dovrebbero essere partner esterni, ha rallentato lo slancio unitario dell’Europa. Gordon Brown, ex premier laburista che ha scritto un bel libro sul perché il Regno Unito dovrebbe restare in Europa, “Leading not leaving”, utilizza molti argomenti simili a quelli di Simms quando parla del grande contributo che il Regno Unito ha dato e potrà dare al progetto europeo: c’è un ottimismo contagioso sulla potenza di questo pezzetto di mondo che si sente spesso così sfigato. Ma Brown, come il premier Cameron, è convinto che un rallentamento del processo di unificazione europea determinato anche dai freni inglesi sia un’ulteriore conferma del fatto che gli inglesi possono “lead”, devono “lead”, l’Europa. Approfittiamo della stanchezza unificatrice europea, dice Brown. Per Simms invece è il contrario: il Regno Unito nella sua storia è stato fonte d’ispirazione di idee politiche e transnazionali molto forti, ma non è per forza detto che poi debba anche fare parte di questi progetti. Nell’ultimo capitolo del suo libro delinea il futuro del rapporto del Regno Unito con l’Europa, quando dall’Euroexit verrà inevitabilmente anche la Brexit (non adesso!). Il Regno Unito continuerebbe a contribuire all’Europa dal punto di vista militare, attraverso la Nato, e dal punto di vista economico, attraverso il mercato unico. L’immigrazione e la circolazione dovrebbero essere negoziate “in modo amichevole” sulla base della reciprocità, ma soprattutto ci dovrebbe essere un accordo di base sul fatto che il Regno Unito non ostacola un’unione politica dell’Eurozona ma anzi la promuove. Due forze che si aiutano, insomma, non un’eventuale Brexit dopo una campagna elettorale astiosa, apocalittica, rovinosa. “Nel breve periodo, se ci fosse oggi un’uscita dall’Ue – dice Simms – le conseguenze economiche sarebbero pericolose, una recessione ci potrebbe davvero essere. Nel lungo periodo, no, il Regno Unito a differenza di molti altri paesi europei può sopravvivere molto bene da solo, proprio perché l’Ue è nata per risolvere problemi che il Regno Unito non ha mai avuto”. Già, non tutti si possono permettere la solitudine. E così, come spesso accade alla fine di queste conversazioni sul potenziale isolano rispetto a quello continentale, viene da chiedere al britannico interlocutore del momento: non è che possiamo venire con voi?