La campagna elettorale a Orlando
New York. “Ho colpito duramente Obama e Crooked Hillary per non aver usato l’espressione ‘terrorismo islamico radicale’. Hillary si è appena arresa, ha detto che adesso la userà!”. Donald Trump ha chiarito a suon di interviste, discorsi e tweet chi gioca in attacco e chi in difesa nella disputa per la sicurezza nazionale dopo la strage di Orlando. Hillary, che seguendo le orme del presidente Barack Obama aveva parlato di generico terrore e di odio, ha infine pronunciato obtorto collo le parole “islamismo radicale” e “jihadismo radicale” (la definizione che preferisce), specificando però che “conta di più quello che facciamo di quello che diciamo”, mentre intanto Trump batteva sul tamburo della chiusura delle frontiere per i musulmani e come di consueto giocava con le teorie del complotto. E’ arrivato a tanto così da suggerire una qualche forma di connivenza, magari involontaria, fra lo Stato islamico e la Casa Bianca che per debolezza o stolida fedeltà al paradigma del politicamente corretto permette la proliferazione del radicalismo islamico. “There is something going on” è la formula, al solito vaga, per evocare l’indistinto spettro che terrorizza l’America, ancora una volta stordita da una strage rivendicata dallo Stato islamico. “Dobbiamo essere molto forti con il nostro esercito, con la sicurezza, dobbiamo essere estremamente forti”, ha detto Trump, che – al pari dell’avversario democratico – ha modificato tutta l’agenda degli appuntamenti per adeguarsi al nuovo assetto narrativo della campagna. Nella corsa per lo sfruttamento elettorale del massacro, Trump ha un vantaggio strategico evidente.
Donald Trump (foto LaPresse)
A dicembre il massacro di San Bernardino gli ha offerto il destro per lanciare l’idea di una chiusura temporanea delle frontiere per i musulmani, L’idea, rigettata non soltanto dai democratici come pazzoide e “un-american”, è stata invece accolta con entusiasmo da un popolo repubblicano che lo ha poi incoronato come candidato del partito di Lincoln. Dopo un’altra strage compiuta nel nome del Califfato, la proposta appare agli occhi di questo popolo ancora meno pazzoide. Il credito politico che Trump vuole prendersi non consiste soltanto nell’esporre una strategia per la sicurezza nazionale alternativa al modello Obama-Clinton, ma anche nello smascherare i tic politicamente corretti della sinistra, che non parla dell’islam ma si trincera dietro la pretestuosa battaglia sul controllo delle armi da fuoco. E l’attacco sulla retorica truffaldina della Casa Bianca ha anche il vantaggio, per Trump, di mettere in difficoltà chi lo critica da destra. I neoconservatori che animano quel che resta del movimento “Never Trump” – oppure hanno dichiarato, a naso turato, fedeltà a Hillary – sono gli stessi che da anni bastonano la felpata riluttanza di Obama quando si tratta di riconoscere e denunciare il terrorismo di marca islamista come tale, e sul caso in questione faticano a smarcarsi dal candidato che disprezzano. “Il rifiuto di Obama di nominare l’islamismo rafforza Trump, che al confronto sembra un eroe popolare della verità”, ha scritto Sohrab Ahmari, opinionista del Wall Street Journal che si è trovato suo malgrado a dovere dare ragione a Trump. Dopo le reazioni a caldo di domenica Obama, che sta coordinando la campagna con Hillary dopo aver concesso il suo endorsement ufficiale, ha modificato leggermente il linguaggio lasciando inalterata la sostanza. Ai giornalisti ha spiegato che “non c’è una prova chiara di una connessione dell’attentatore di Orlando con lo Stato islamico”, fingendo di ignorare il meccanismo liquido e indiretto con cui il Califfato recluta giovani radicalizzati in America, ma ha parlato di una “perversione” dell’islam e ha nominato “organizzazioni radicali e nichiliste”. Tutto questo poco prima che il direttore dell’Fbi, James Comey, dicesse che ci sono “forti indicazioni della radicalizzazione del killer” e che Omar Mateen ha “conosciuto per caso” in una moschea della Florida il primo attentatore suicida americano in Siria.