Ma quale gun control, il jihadismo prolifera per il ritiro dell'occidente
David French è un famoso veterano dell’Iraq, è rispettato e stimato negli Stati Uniti sia destra sia a sinistra e sulla National Review di ieri ha messo insieme una serie di ragionamenti importanti per inquadrare una grande ipocrisia spacciata in queste ore come verità assoluta: il tentativo di trasformare la politica del gun control in un prozac da ingerire per non mettere a fuoco l’ideologia che arma le pistole degli integralisti islamici.
French, a proposito della carneficina di Orlando, ricorda che negli ultimi mesi ci sono stati diversi episodi che dovrebbero suggerirci una traiettoria diversa da seguire per capire cosa si trova dietro la proliferazione del jihadismo – Parigi, Bruxelles, l’aereo russo fatto saltare in cielo. Ma il cuore del ragionamento dell’opinionista della National Review è questo: osservatori, politici e twittaroli progressisti spacciano il gun control come la priorità per combattere il terrorismo perché concentrarsi sul jihad significherebbe dover ammettere che la strategia più efficace per combattere il terrorismo riguarda più la politica estera che la politica di sicurezza nazionale.
“Negli ultimi anni – scrive French – in America è cambiato qualcosa e quel qualcosa purtroppo non c’entra nulla con la disponibilità di armi nel nostro paese”. Quel qualcosa è il vero nocciolo della questione, la vera ciccia della storia. Fino a quando l’America è stata impegnata a combattere alla radice il terrorismo islamico, arrivando a portare i propri stivali sul terreno per esportare la democrazia, la sicurezza americana, argomenta French, ne ha tratto beneficio. Dal momento in cui l’America ha scelto di mettere in campo la strategia del leading from behind, trasformando tra l’altro l’Iran (l’Iran!) nel grande difensore dei valori democrazia in medio oriente, è successo quello che in molti fanno finta di non vedere, nascondendosi dietro gun control: il terrorismo ha ricominciato a crescere, i jihadisti hanno costruito un stato governato dalla sharia e attraverso l’affermazione di questo stato hanno creato le condizioni per facilitare l’arruolamento nell’esercito della jihad. Sia con reclutamento indiretto (lupi solitari) sia con reclutamento diretto (alla fine del 2016, 30 mila stranieri provenienti da 50 paesi diversi hanno combattuto in Siria e in Iraq e il 20 per cento di loro ha poi lasciato la zona di conflitto).
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Dal punto di vista numerico i dati a sostegno della tesi di French arrivano dalla “New America Foundation’s International Security Program” e dicono che dal giorno dopo l’11 settembre (2001) fino alla nascita dello Stato Islamico (primavera 2014) sono stati tre gli americani uccisi in America in attentati compiutati da jihadisti. Dal 2014 a oggi, i jihadisti hanno invece ucciso 73 persone in America: l’islamista Ali Muhammed Brown nel 2014 ne ha assassinati 4, pochi mesi dopo una donna è stata sgozzata da un jihadista in Oklahoma, l’anno successivo due persone sono state uccise da un fondamentalista a Chattanooga e prima di arrivare alle stragi di Orlando e San Bernardino altri ne sono stati uccisi poco prima di una possibile strage, come è successo a due islamisti il 3 maggio 2015 che provarono ad attaccare una mostra-concorso di vignette su Maometto organizzata in Texas. French è un veterano e il suo ragionamento è di parte ma il punto che coglie è quello centrale: la sicurezza nazionale è importante, certo, ma senza sconfiggere lo Stato Islamico, senza mostrare la sua ritirata, senza sostituire una strategia offensiva a una difensiva, senza mettere gli scarponi sul terreno per esportare la democrazia, la profezia di Bin Laden rischia di avverarsi: “When people see a strong horse and a weak horse, they will naturally want to side with the strong horse”. Il vero nemico sono i jihadisti, non le pistole.