La guerra di Milo Yannopolous contro i vizi liberal
New York. Milo Yiannopoulos è un provocatore con i capelli ossigenati che canta “happy birthday” a Donald Trump seduto su una ciambella gonfiabile, in piscina, mentre sorseggia un calice di rosé. E’ una versione destrutturata e gay-friendly degli auguri cantati da Marilyn Monroe a John Fitzgerald Kennedy. Lui, eccentrico trumpista della prim’ora, chiama il candidato soltanto “Daddy”. E’ un opinionista inqualificabile, Yiannopoulos, nel senso che non è semplice qualificarlo: conservatore nato ad Atene e cresciuto in Inghilterra, bastonatore dei liberal benpensanti, gay orgoglioso e altrettanto orgoglioso avversario della lobby arcobaleno che teorizza la superiorità antropologica mentre gioca a fare la vittima del sistema, antifemminista impenitente, cattolico di madre ebraica con una speciale avversione per i dogmi secolarizzati dei “nuovi atei”, si occupa di tecnologia per il giornale online conservatore e filotrumpiano Breitbart, ma è più facile trovarlo a fare polemica in salotti televisivi dove lo invitano come urticante caricatura del conservatore postmoderno (lui sta al gioco, recita la sua parte a meraviglia, abbigliato con impeccabile eleganza britannica) o in qualche flash mob organizzato per provocare. Ha anche istituito una speciale borsa di studio per studenti bianchi e privilegiati: “Accessibile soltanto agli uomini bianchi che vogliono ricevere un’educazione universitaria con le stesse possibilità dei loro compagni femmine, queer e di minoranze etniche”.
Ieri Yiannopoulos doveva tenere un discorso sui gay e l’islam alla University of Central Florida, a Orlando, ma l’evento è stato cancellato perché la polizia della città dove domenica è avvenuta la più grande strage da arma da fuoco della storia americana non era in grado di garantire la sua incolumità. Lui ha spostato l’evento davanti a una chiesa, a due passi dal Pulse, e con tempismo più che sospetto Twitter gli ha sospeso l’account. Dopo un’ora di proteste in cui #FreeMilo è diventato un trending topic, alimentando la percezione che i social network tendono a oscurare o nascondere le opinioni conservatrici, l’account è stato ripristinato e Milo è tornato a scandire un messaggio su cui insiste da molto prima della strage di Orlando: l’islam è il peggiore nemico della comunità lgbt. Non è difficile costruire un ardito sillogismo elettorale su questa premessa. Il peggior nemico dell’immigrazione islamica in America è Trump, dunque il miglior amico della comunità lgbt è proprio il candidato repubblicano. E’ esattamente la convinzione di Milo, che Trump stesso ha condensato in un tweet: “Grazie alla comunità lgbt! Combatterò per voi mentre Hillary lascia entrare sempre più gente che minaccia le vostre libertà e le vostre convinzioni!”.
Yiannopoulos non parla solo dell’islam radicale, dello Stato islamico che getta gli omosessuali dai tetti di Raqqa, ma punta il dito contro “un problema strutturale dell’islam” nei confronti dell’omosessualità, un problema obliterato dalla sinistra che è terrorizzata dall’accusa di islamofobia, discriminazione intollerabile di una minoranza oppressa. Non sono rari i casi, specialmente nei paesi del nord Europa, in cui manifestazioni omosessuali sono state sospese o bollate da sinistra come “provocazioni” per non urtare la sensibilità degli immigrati musulmani. “Sono gay e l’immigrazione di massa di musulmani mi terrorizza”, ha scritto lo scorso anno. Dopo la strage di Orlando ha accusato la sinistra americana di essersi schierata dalla parte dei musulmani invece di proteggere la comunità omosessuale minacciata da “una religione che non è in grado di adattarsi allo stile di vita occidentale”. L’omofobia, insomma, non è affatto un’esclusiva dell’occidente, e dunque chiedersi se Omar Mateen, il terrorista di Orlando, abbia agito per omofobia o per affiliazione al radicalismo islamico è peregrino: ha agito per omofobia dettata dal radicalismo islamico.
Milo estende l’argomento anche al trattamento delle donne. I progressisti parlano continuamente di femminicidio, “cercano tracce di sessismo nel ‘mansplaining’ e in battute ambigue, eppure chiudono gli occhi di fronte a una cultura in cui l’unico ruolo accettabile per la donna è quello di casalinga con il volto coperto”.
Yiannopoulos è un istrione che ha fatto dell’eccesso la sua cifra stilistica, provoca sapendo di provocare, ma talvolta soltanto il buffone può dire la verità al re. La prova che le sue taglienti critiche colgono nel segno l’ha offerta il New York Times nel suo primo editoriale di ieri. Si legge che Mateen “era guidato dall’odio per i gay e per le lesbiche. I crimini di odio non succedono nel vuoto. Succedono laddove il fanatismo è lasciato proliferare, dove le minoranze sono vessate e le persone sono usate per trarre un vantaggio politico”; i morti del Pulse “vanno ricordati come vittime di una società in cui l’odio ha origini profonde”.
La società a cui il New York Times attribuisce un concorso di colpa nella strage non è quella islamica che terrorizza l’omosessuale Yannopolous. Né l’islam né lo Stato islamico compaiono nell’articolo. E’ la società bianca, repubblicana e cristiana che ha armato la mano di un assassino che, nel racconto del Times, assomiglia più a un elettore di Trump che a un seguace di al Baghdadi.