Viaggio nella Brexitocrazia
Il referendum del prossimo 23 giugno sta sottoponendo a grandi sollecitazioni i partiti politici britannici. Quello europeo è un tema tradizionalmente divisivo per la politica del Regno Unito. Si tratta però di una frattura che non ricalca quella verticale classica destra/sinistra. Lo Ukip è nato come partito programmaticamente anti Unione europea. Lo Scottish National Party (Snp) e i Lib-Dem sono, con qualche rara eccezione individuale, a favore della permanenza nell’Ue. Pur etichettando come di destra una forza populista e protestataria come lo Ukip, più difficile risulta dare una precisa collocazione lungo l’asse destra/sinistra agli altri due partiti e dedurre da essa il loro europeismo.
Lo Snp ha oggi una piattaforma politica di stampo socialdemocratico. Ma il suo europeismo deriva piuttosto da una duplice convinzione: 1) che Bruxelles sia in grado di garantire a Edimburgo risorse e opportunità maggiori di quelle che Londra è disposta a concedere; 2) che il vincolo europeo costituisca un efficace contrappeso per riequilibrare quello che, dal punto di vista scozzese, è l’insopportabile anglocentrismo del Regno Unito. L’europeismo dello Snp è frutto in primo luogo della specificità geografica degli interessi che esso rappresenta.
Quanto ai Lib-Dem, concepirli come un partito di centro è un po’ semplicistico. Essi sono l’esito di un processo avviato dalla fusione fra Liberal Party e Social Democratic Party (Sdp). E’ vero che il Sdp nacque nel 1981 per occupare lo spazio al centro lasciato libero dalla radicalizzazione di laburisti e conservatori. E’ altrettanto vero, però, che la sopravvivenza del Liberal Party nei decenni bui ’50 e ’60 e il suo primo revival nei ’70 furono garantiti dall’attivismo civico – per molti versi radicale – di militanti per nulla disposti a essere definiti “centristi”. La fusione con i socialdemocratici e la recente esperienza del governo di coalizione hanno contribuito a rimodellare il partito. Tuttavia l’eredità di quell’attivismo ha lasciato tracce. Basti pensare alle posizioni sulla libertà d’insegnamento.
Sostenitori del Pro e Contro la Brexit in campagna sul Tamigi (foto LaPresse)
Se passiamo ai due partiti maggiori le cose si complicano. Sono ben note le attuali divisioni dei conservatori. Ma il Partito laburista non è immune da problemi analoghi. Al momento la frattura fra i laburisti appare meno profonda e traumatica di quella che attraversa i conservatori. E’ probabile, però, che ciò dipenda dalla volontà di sfruttare a pieno le difficoltà dei Tory.
In passato conservatori e laburisti hanno più di una volta ribaltato le loro posizioni circa la partecipazione del Regno Unito al processo di integrazione europea. Ciò vale sia per il periodo compreso fra la fine della Seconda guerra mondiale e l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea nel 1973, sia per il periodo successivo a quest’ultima data. Il referendum del 23 giugno è stato indetto da un primo ministro conservatore in buona parte a causa di pressioni provenienti da destra. Il primo referendum sul tema europeo, quello del 1975, però, fu indetto da un primo ministro laburista, in buona parte a causa di pressioni provenienti da sinistra. Margaret Thatcher, oggi icona degli antieuropeisti, nel 1975 si schierò a favore della permanenza nella Ce. Se oggi è una parte consistente dei conservatori, insieme con lo Ukip, a invocare la Brexit, nelle elezioni del 1983 furono i laburisti a promettere l’uscita dalla Ce.
Le cose insomma non sono lineari e il cleavage destra/sinistra non è un criterio valido per definire il posizionamento dei due partiti principali rispetto al tema europeo. E’ possibile, però, usare la frattura destra/sinistra per spiegare le spaccature al loro interno? In altri termini: il tema europeo costituisce una sorta di terreno d’incontro per i moderati dei partiti laburista e conservatore?
Il fatto che il referendum del 23 giugno sia stato indetto essenzialmente a causa della crescita dello Ukip e della sua capacità di erodere il consenso del Conservative Party sul fianco destro, lascerebbe presupporre che in effetti i più eurofili – o i meno euroscettici – si concentrino nel centro-sinistra del partito. Questo dato è sicuramente vero, ma non racchiude tutta la verità. Se per destra del Partito conservatore intendiamo, come dobbiamo, la New Right emersa a partire dagli anni 70 e il neoliberalismo thatcheriano, non è possibile sovrapporre in maniera pedissequa questo gruppo con quello euroscettico. Boris Johnson, ad esempio, si definisce un One nation tory: un conservatore “sociale” nella tradizione di Harold Macmillan, Stanley Baldwin, e Benjamin Disraeli. La difficoltà di tracciare una netta divisione secondo una frattura destra/sinistra è confermata anche nel medio-lungo periodo. Fra i principali antieuropeisti conservatori degli anni 60 vi sono due personaggi molto distanti fra loro come Enoch Powell e Peter Walker. Il primo fu uno dei padri nobili della New Right. Walker si riconosceva nel conservatorismo inclusivo del One nation toryism. Margaret Thatcher iniziò la sua carriera di leader Tory schierandosi a favore della permanenza nella Ce in occasione del referendum del 1975, e la finì come fiera oppositrice della nuova traiettoria, che, ai suoi occhi, il processo di integrazione aveva assunto dalla metà degli anni 80. La posizione nei confronti dell’Europa, insomma, non è diretta conseguenza del posizionamento ideologico all’interno del Partito conservatore. Il posizionamento ideologico è al massimo indicatore di una propensione. Inoltre, come dimostra la parabola di Mrs. Thatcher, non è raro imbattersi in politici che si sono riposizionati sul tema nel corso degli anni.
Queste caratteristiche sono rintracciabili anche fra i laburisti. Lo stato maggiore di Labour Leave è composto da esponenti della sinistra del partito. Non mancano però eccezioni di rilievo. Il presidente di Vote Leave Campaign, Gisela Stuart – che per inciso è tedesca di nascita – è una blairiana. E’ stata il solo parlamentare laburista a pronunciarsi apertamente per la rielezione di G. W. Bush nel 2004. Al contrario, Jeremy Corbyn, il leader del partito che ha riportato in auge temi e battaglie della sinistra laburista, è schierato contro la Brexit, nonostante il suo passato antieuropeista. Nell’immediato Dopoguerra il non coinvolgimento nei primi passi del processo di integrazione fu posizione condivisa da tutte le anime del partito, da Morrison a Crossman, da Attlee a Foot, da Bevin a Bevan. Euroscettici, pur se da differenti punti di vista, possono essere definiti il riformista Hugh Gaitskell così come Michael Foot, il più a sinistra fra i leader del Partito Laburista della seconda metà del ’900.
Insomma, conservatori e laburisti condividono una lunga tradizione di divisioni interne circa il ruolo del Regno Unito nel processo di integrazione europea. Tuttavia queste fratture non possono essere capite facendo ricorso solo alla dialettica destra/sinistra. Il posizionamento ideologico all’interno del partito può essere indicativo di una propensione pro o contro l’Europa, ma non costituisce la regola aurea che instaura un nesso causa-effetto fra l’uno e l’altra. Occorre perciò tenere presente altri fattori, con i quali quello ideologico interagisce costantemente.
In primis l’evoluzione stessa del processo di integrazione. Il passaggio dal Mercato comune all’Unione ha contribuito a rimodulare l’atteggiamento di molti conservatori e di molti laburisti. L’Atto unico europeo, la Carta fondamentale dei diritti dei lavoratori e in generale la contrapposizione fra Thatcher e Delors, l’Erm (il Meccanismo di cambio europeo) sono stati decisivi. Alla fine degli anni 70, la gran maggioranza dei free-marketeers era a favore della partecipazione alla Ce. Alla fine degli anni 80 questo favore era fortemente scemato a causa dell’accentuazione degli aspetti politici dell’integrazione e dell’implementazione della regolamentazione del mercato comune. Viceversa, alla fine degli anni 80, l’idea di un’armonizzazione delle politiche sociali ed economiche non poteva che essere musica per molti laburisti, traumatizzati dal ciclone thatcheriano.
In secondo luogo ci sono le motivazioni di strategia e tattica politica. Da un lato vi è la necessità di marcare la differenza rispetto all’avversario politico. Dall’altro vi è la necessità di giocare di sponda con l’avversario del proprio avversario. A ciò occorre aggiungere la necessità di prestare molta attenzione alla specifica situazione del proprio collegio elettorale, ossia tanto al suo collocamento geografico, quanto al peculiare contesto socio-economico. L’anti-europeismo non è sparso omogeneamente per il paese ed è possibile individuare contesti nei quali esso è più concentrato che altrove.
In terzo luogo occorre considerare un insieme di fattori storico-culturali sedimentatisi nel corso dei secoli nella coscienza collettiva britannica. Potremmo racchiudere tutto questo nella formula diversità nella similarità. Ossia l’idea che la Gran Bretagna sia parte dell’Europa, ma anche differente dal resto del continente. Per la sua insularità. Per il ruolo di grande potenza mondiale esercitato per circa due secoli. Per l’eredità di quella che è definita interpretazione whig della sua storia, secondo la quale il sistema costituzionale britannico rappresenta il punto più alto dello sviluppo politico dell’umanità. Dal XVIII secolo questa idea di diversità nella similarità è stata al tempo stesso causa e conseguenza anche di un peculiare atteggiamento di politica estera verso il continente europeo, ruotante intorno a due necessità: assicurare all’economia britannica l’accesso più agevolato possibile ai mercati continentali e mantenere fra le potenze continentali un equilibrio che rendesse possibile ciò. L’interesse di Londra verso l’Europa, insomma, è sempre stato in primo luogo commerciale piuttosto che politico in senso stretto. Con la conseguenza che, dalle guerre di successione settecentesche fino alle due mondiali, passando per quelle napoleoniche, la sua partecipazione attiva ai conflitti fra gli stati europei è avvenuta solo quando l’equilibrio continentale è stato messo in pericolo.
Questi elementi sono parte viva dell’identità delle élite e dell’opinione comune britanniche. Essi forniscono ancora oggi alcune armi ideali e argomentative tanto agli euroscettici, quanto agli eurofili. Basti pensare alla difesa del principio di sovranità nazionale e delle prerogative del Parlamento nazionale, propria dei conservatori ma anche di alcuni laburisti (Shore negli anni 70, Stuart oggi). Oppure all’idea, condivisa tanto da Churchill quanto da Attlee, che il Regno Unito dovesse favorire i primi passi dell’integrazione, ma senza parteciparvi. Oppure ancora, sul versante eurofilo, alla consapevolezza della necessità di partecipare al processo di integrazione per garantirsi accesso agevolato al mercato europeo e un più favorevole equilibrio continentale. Il tema dell’integrazione sollecita continuamente tali aspetti identitari. Questi possono essere declinati in chiave conservatrice e in chiave laburista, in chiave radicale e in chiave moderata. E’ per questo che è così difficile effettuare una ricostruzione lineare delle fratture fra europeisti e antieuropeisti sia fra i partiti sia dentro i partiti.
Un ultimo elemento va considerato: la funzione che il tema dell’Europa ha svolto nei processi di ricomposizione delle leadership all’interno dei partiti. Dagli anni 70 in poi, la conflittualità sul tema dell’Europa ha raggiunto l’acme quando è stato fortemente politicizzato. Ciò è avvenuto in momenti cruciali per l’evoluzione dei rapporti fra Londra e Ce. Quei momenti di alta conflittualità sono coincisi sempre con un altro dato: la crisi di leadership del partito al governo. Il referendum del 1975 fu indetto da Wilson, leader di un Partito Laburista squassato da contrasti interni su tutti i temi principali. I risultati delle due elezioni del 1974 non sciolsero alcun nodo, obbligando Wilson all’unica politica possibile: la stasi. L’indizione del referendum maturò in un contesto di paralisi della leadership a causa dell’alta conflittualità interna ed esso fu la sola via individuata dal leader per gestire le divisioni dentro il partito su quel tema.
La centralità del tema dell’Europa fra il settembre 1988 e il novembre 1990 ebbe la sua ragione anche nella sclerotizzazione della leadership di Margaret Thatcher, divenuta durante il suo terzo mandato sempre più distaccata dai colleghi di gabinetto e arroccata nel “cerchio magico” di collaboratori personali. Ciò contribuì molto a deteriorare i rapporti con ministri chiave come Nigel Lawson e Geoffrey Howe. Il peggioramento della congiuntura economica e l’introduzione della poll tax aggravarono la situazione. La Thatcher fu sempre più percepita come un problema piuttosto che una risorsa dal suo stesso gruppo parlamentare.
La situazione attuale infine è sotto gli occhi di tutti. Il referendum del 23 giugno è anche la conseguenza della debolezza della leadership di David Cameron, incapace per due volte di convincere a pieno gli elettori britannici. Non essendo riuscito a conquistare la maggioranza assoluta nel 2010, è stato costretto a concedere ai Lib-Dem il referendum sull’Alternative Vote, pur di chiudere l’accordo per il governo di coalizione. A causa dei ripetuti pessimi risultati dei conservatori in Scozia (almeno fino alle elezioni dello scorso 5 maggio), è stato costretto a concedere il referendum per l’indipendenza. A causa dei successi dello Ukip, che significano anche mancanza di presa sulla destra del proprio partito, Cameron è stato costretto a promettere il referendum che si terrà il 23 giugno. Il ricorso al referendum, insomma, sembra essere una delle poche risorse dell’attuale primo ministro. E quanto agli ultimi due, è interessante notare come un primo ministro conservatore abbia cercato e cerchi di resistere alla marea montante del populismo ricorrendo a uno strumento che l’establishment britannico ha sempre percepito come squisitamente populista.
In tutti e tre i casi il tema europeo ha giocato e gioca un ruolo cruciale, poiché consente ai competitor del leader in carica di riposizionarsi nel modo reputato più idoneo a rafforzare il proprio consenso tanto nel partito, quanto davanti all’elettorato. A prescindere dal fatto che fossero pro o contro la Ce, nel 1975 tutti i principali aspiranti alla successione a Wilson (Callaghan, Healey, Foot, Benn, Shore) furono a favore dell’indizione del referendum. Nessuno osò contendere alla Thatcher la leadership del partito fino al 1989. Il primo a farlo fu sir Anthony Meyer, un convinto europeista. La sfida decisiva, che la obbligò alle dimissioni, fu quella di Michael Heseltine nel 1990. Heseltine come Meyer era europeista. Non solo. Entrambe le sfide furono lanciate nel mezzo di aspre polemiche sull’adesione o meno della Gran Bretagna all’Erm. Polemiche rese ancora più incandescenti dalle dimissioni dal governo di Nigel Lawson e Geoffrey Howe, thatcheriani della prima ora e protagonisti di primo piano nei governi della Lady di Ferro. Lawson si dimise il 27 ottobre 1989, Meyer lanciò la sfida il 23 novembre. Howe si dimise il 13 novembre 1990; Heseltine annunciò la sua candidatura per la leadership pochi giorni dopo. E’ infine palese il modo in cui gli aspiranti leader del Partito conservatore stanno usando il tema referendario per posizionarsi nella corsa per la successione a Cameron. Oggi, anzi, acquisire visibilità su un tema così mobilitante sembra ancora più importante che in passato. Dal 2001, infatti, l’elettorato intitolato a scegliere il leader conservatore è stato allargato dai soli deputati Tory ai membri del partito.
Fin qui passato e presente. Qual è la posta in gioco per il futuro in tema di partiti? La domanda non è solo se Cameron riuscirà a tenere insieme il suo. Che sicuramente è una buona domanda. Il precedente laburista del 1975 non è molto rassicurante. Allora gli europeisti vinsero, ma ciò non calmò le acque dentro il partito. Pochi anni dopo, la secessione di un nocciolo duro europeista e la fondazione del Sdp ebbe molto a che vedere con la virata anti Ce del Labour a guida Foot. I conservatori sono solitamente più leali verso il proprio leader, ma l’incattivirsi della campagna elettorale rischia di aprire ferite difficili da rimarginare. Inoltre, esiste già lo Ukip. L’uscita dal partito non assumerebbe i connotati di una secessione, ma quella formalmente più rassicurante di un trasloco.
La domanda, dicevo, va oltre la capacità dei conservatori di riassorbire i contraccolpi del referendum, qualunque sarà l’esito. La vera questione è se gli effetti del referendum saranno tali da rimodellare l’intero sistema dei partiti. La frattura sul tema dell’Europa attraversa i due partiti principali, e lo fa sollecitando costantemente elementi identitari di grande efficacia evocativa, oltre che suscitando questioni politiche più contingenti. Il nodo è capire se, almeno potenzialmente, la questione dei rapporti fra Regno Unito e Ue è tale da assurgere nei mesi e negli anni futuri allo stesso rango dei grandi sconvolgimenti della storia politica britannica contemporanea, che sono stati in grado di rimodellare il sistema dei partiti: le Corn Laws, l’Irish Home Rule, la Tariff Reform. La nascita e i progressi dello Ukip in un certo senso sono già un passo in quella direzione.
Il vento populista che spira ovunque in occidente in merito ai temi dell’immigrazione, della sicurezza e del welfare si sta dimostrando capace di accentuare un processo già in atto nel Regno Unito dagli anni 70, ossia l’erosione della capacità dei due partiti principali di attrarre elettori. I contrasti fra Inghilterra e Scozia potrebbero acuirsi. L’antieuropeismo potrebbe essere il vessillo intorno al quale far ruotare tutto ciò. Rispetto ai grandi sconvolgimenti politici del passato citati, c’è però almeno una differenza sostanziale: la mancanza di un leader di caratura nazionale in grado di farsi portatore plausibile di queste istanze. Non si vedono al momento novelli Robert Peel o Joseph Chamberlain. Ma non è detto che non ne sorga uno in un prossimo futuro.
Domenico Maria Bruni è docente di IMT Lucca e di Luiss Guido Carli