Ordine liberale, addio
Così come in occidente, il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 alimentò le speranze di molti in Asia orientale. Più di tutti, gli Stati Uniti d’America dei “ruggenti anni Novanta” tradussero il ritrovato dinamismo economico e appeal politico nell’abbattimento di barriere economiche e politiche; l’amministrazione Clinton mosse dal convincimento che un ordine internazionale composto da democrazie dedite al libero scambio fosse garante di pace e prosperità, e quindi favorì con decisione l’evoluzione politica di diversi regimi illiberali, semi-autoritari, o non pienamente rappresentativi in Asia orientale.
Alla politica estera americana si accompagnò un diffuso ottimismo: l’idea di democrazia come “fine della Storia”, secondo cui il modello liberale non è contingenza storica, ma il traguardo ultimo dell’umanità. L’ingresso nel 2001 della Repubblica Popolare Cinese, un’economia fortemente dirigista, nell’Organizzazione mondiale del Commercio, partiva sia da interessi economici che dall’ideologia post-anni Novanta; come ebbe a dichiarare nel 1998 Bill Clinton, in merito al trattamento dei diritti umani e di libertà di religione in Cina, i regimi autoritari erano “dalla parte sbagliata della Storia” e l’ingaggio economico della Cina sottaceva un corollario del pensiero dominante: al liberismo economico sarebbe succeduto il liberalismo, la modernità politica (non a caso l’inglese liberalism si usa in funzione sia politica sia economica, ma non nella cinica Italia). Insomma, nel post Guerra Fredda gli Stati Uniti si affacciavano all’Asia orientale con occhi “panglossiani”, per dirla con Voltaire: tutto era per il meglio nel migliore dei mondi possibili.
Una globalizzazione dirompente cementificò tali convincimenti. Dei precedenti fenomeni di internazionalizzazione dell’economia, che coincisero con la prima e la seconda rivoluzione industriale, beneficiava soprattutto la grande borghesia dei paesi coloniali. Di contro, la globalizzazione di fine Ventesimo secolo fu maggiormente democratica, arricchendo paesi emergenti, quali Cina e India. Grazie alla liberalizzazione del commercio e degli spostamenti di capitale, la delocalizzazione dei processi produttivi in paesi emergenti ha coinciso con la rivoluzione informatica e digitale.
Queste dinamiche avrebbero dovuto erodere il potere degli Stati-nazione, intaccandone la sovranità sia dall’alto che dal basso. Per esempio, la Crisi finanziaria asiatica del 1997 spronò esperimenti di regionalismo finanziario, esemplificato dal simil-fondo monetario dell’Iniziativa Chiang Mai. A parte il commercio estero, l’ottimizzazione dei sistemi distributivi ha integrato la filiera produttiva dei diversi paesi asiatici, creando una vera e propria “fabbrica Asia”. L’ottimismo fin de siècle, cent’anni dopo quello europeo spostatosi ora in Asia orientale, portava molti a ravvisare le fondamenta economiche, politiche, sociali – se non anche culturali – per un’integrazione profonda.
Si dice spesso che gli attentati terroristici dell’undici settembre 2001 siano un punto di cesura del post Guerra fredda. Di sicuro hanno confermato l’importanza di attori non-statali sulla scena politica internazionale, ma l’effetto principale è stata, a parere di chi scrive, la militarizzazione della lotta al terrorismo con improvvidi interventi nel Grande medioriente che hanno distratto gli Stati Uniti dalla vera sfida del Ventunesimo secolo, l’ascesa della Cina. L’impantanamento in Iraq e Afghanistan, e la perdita di soft power della superpotenza americana si accompagnavano poi alla crisi economica del 2008. Così, entrata a tutti gli effetti nel novero dei paesi avanzati a seguito delle Olimpiadi del 2008, la Cina ha tradotto la continuata ascesa economica e militare in una politica estera più assertiva. La classe dirigente del Partito comunista cinese si imbaldanzì per il ritrovato spazio di manovra a livello regionale e, forte di una flotta navale sempre più nutrita, frange di falchi prima minoritari hanno iniziato a rivendicare le numerose terre contese con i vicini asiatici, soprattutto le vicine potenze marittime.
Il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping
Così, l’assertività cinese nasceva da un potente nazionalismo irredentista, ma si accompagnava a un senso diffuso di insicurezza in Asia orientale. Stati progressivamente più deboli, quali le Filippine, il Vietnam e il Giappone, si premuravano di ribadire le proprie rivendicazioni – a volte in maniera avventata – prima che la potenza cinese diventasse potenza egemone regionale. Allo stesso tempo, i sopraccitati paesi perseguivano un’attiva diplomazia e numerose riforme inerenti la sicurezza nazionale per arrestare la crescita della potenza cinese. Il Giappone di Abe Shinzo, nel 2006-7 come ora, rappresenta un lampante esempio di quello che a buon diritto si può chiamare un Rinascimento della politica di potenza in Asia orientale.
Nel giro di qualche anno l’Amministrazione Bush si premurava poi di favorire un multipolarismo anti-Cina favorevole agli interessi regionali degli Stati Uniti. Un esempio in tal senso furono le aperture Usa sulla cooperazione sul nucleare civile con l’India, in deroga al Trattato di non proliferazione; un altro esempio fu l’incitamento affinché partner regionali, quali Giappone, Australia e finanche Vietnam e India, approfondissero i rispettivi rapporti di sicurezza. In questo senso, il Pivot to Asia “inaugurato” dall’Amministrazione Obama si inseriva nella continuità con Bush. Oltretutto, per dirla con Michael Green, ex capo degli Affari asiatici al Consiglio per la sicurezza nazionale della presidenza Bush, tali iniziative miravano a un “bilanciamento di potenza a favore della libertà”. E anche il Giappone di Abe, dieci anni fa come adesso, ha spiegato il proprio dinamismo in politica estera in funzione di “valori universali, quali democrazia, diritti umani e diritto internazionale”. Invece, il nuovo motore della storia in Asia orientale è la logica di potenza, e l’ossessione per le questioni di sicurezza nazionale contribuisce a erodere le fondamenta liberali nella regione.
Il primato della sicurezza si declina anche in chiave economica. Al trattato di libero scambio multilaterale Trans-Pacific Partnership (TPP), che avrebbe approfondito il legame di paesi già impegnati in partnership strategiche o alleanze militari con gli Stati Uniti, coincidono iniziative cinesi di portata storica. Nel 2015, la Cina ha inaugurato la Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture (BAII) per investire le ingenti risorse interne in paesi vicini, attraverso commesse pubbliche che avrebbero favorito imprese cinesi in affanno e, al contempo, lo sviluppo economico dei paesi target. Ma la BAII avrebbe permesso a Pechino di usare gli aiuti allo sviluppo per fini politici: paesi beneficiari di prestiti agevolati, oppure di opportunità di investimenti redditizi, avrebbero più facilmente assecondato le molto controverse posizioni di Pechino. Come evidenziato dal timido comunicato congiunto rilasciato al recente vertice G7 di Ise-Shima, i governi europei evitano già di criticare le azioni coercitive di Pechino sulle dispute territoriali nel mar cinese orientale e meridionale. Insomma, Pechino riesce già a fare perno su leve economiche a uso politico.
Del resto, in un’età di crisi, se non di vera e propria stagnazione strutturale per le economie avanzate, i governi di vecchie democrazie occidentali danno sempre più precedenza a obiettivi economici. Il Dalai Lama è diventato persona non grata per quasi tutti i governi europei nel giro di una decina di anni: il progressivo ammorbidimento sulla questione dei diritti umani in Cina mira ad attrarre proficui contratti e investimenti (e l’incontro privato di ieri tra Obama e il leader spirituale tibetano è un atto politico chiaro). Caso lampante è quello britannico: in funzione della promessa di internazionalizzazione dello yuan cinese sui mercati finanziari della City, il governo britannico ha evitato di criticare la morsa autoritaria di Pechino su Hong Kong, morsa che avviene in barba ai memoranda firmati dai due governi per sancire la restituzione della provincia autonoma alla madrepatria. E nel marzo del 2015 Regno Unito e numerosi alleati di lungo corso quali Italia, Germania, Francia, e Corea del Sud hanno deciso di diventare membri fondatori della BAII, in opposizione alle pressioni statunitensi.
Altro che storicismo panglossiano. l’Asia orientale oggi registra un’evidente regressione politica in funzione del primato della sicurezza, toccando paesi del sud est asiatico, l’India, la Cina e democrazie mature, quali il Giappone. Riguardo Cina e Giappone, la crisi per le isole contese Senkaku/Diaoyu ha legittimato l’avvento di discusse legislazioni a favore della sicurezza nazionale, ivi incluse leggi sulla segretezza; a queste si aggiunge un progressivo contingentamento dell’informazione, attraverso meccanismi formali e informali, sui mass media.
Il diffuso senso di insicurezza a livello regionale contribuisce ad aperture strategiche a stati autoritari, considerati paria sul fronte diritti umani: in funzione anti-Cina, nel 2013 Tokyo ha esplorato aperture verso la Corea del nord; così gli Stati Uniti di Obama, visibilmente affaticati e refrattari all’intervento diretto nei numerosi scenari di crisi internazionale, preferiscono approfondire le relazioni con regimi asiatici illiberali, come dimostrato dalla recente rimozione dell’embargo sugli armamenti nei confronti del Vietnam. La politica estera statunitense in Asia orientale si proponeva di contrastare la ritrovata assertività di Pechino, confermando il nuovo Spirito del tempo.
In un’epoca di più diffuse incertezze, il richiamo del Candido di Voltaire a coltivare con solerzia il proprio orto risuona, quindi, come un monito alla prudenza proprio del realismo politico statocentrico. Eppure, se è ancora presto perché si parli di un “ritorno al futuro”, l’ordine liberale e finanche i sistemi politici liberali di lungo corso sono diretti verso un periodo di crescenti turbolenze, a causa del ritrovato primato della sicurezza in Asia orientale e non solo.
Giulio Pugliese è Docente di Economia e Politica dell’Asia orientale all’Universität Heidelberg e membro di Asia Maior, think tank italiano sull’Asia contemporanea.