L'ultima difesa di Cameron sulla Brexit
In queste ultime ore prima del verdetto finale sulla Brexit – si vota domani – David Cameron, il premier britannico che sostiene la permanenza del Regno Unito nell’Ue, non fa che consultare il modello che gli ha preparato Jim Messina, guru obamiano che fa da pompiere democratico in tutto il continente: questo incrocio di dati, andamenti storici e tabelle è dedicato alla “mobilitazione”. Chi riesce a portare più elettori a votare vincerà il referendum: anche Lynton Crosby, guru australiano sodale dei conservatori (in quest’ultima battaglia saggiamente non si è schierato), lo confermava ieri nella sua analisi settimanale sul Telegraph. Dopo una campagna elettorale rabbiosa e segnata, la settimana scorsa, dall’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox, il nemico principale è l’indifferenza degli inglesi. Per i leader politici questa apatia sarebbe la dimostrazione brutale della loro incapacità di spiegare, tra liti, affronti, vendette, che questa decisione – dentro o fuori dall’Ue – ha un significato epocale, per il Regno Unito e per l’Europa.
Cameron è, come scriveva ieri sul Financial Times George Parker, nella battaglia più importante della sua carriera politica: si gioca tutto, posto, credibilità, potere, legacy. Anche se ha già detto che, in caso di sconfitta, resterebbe a negoziare la Brexit con gli europei – faccenda lunga e complicata – l’ex cancelliere Ken Clarke sostiene che “non durerebbe più di 30 secondi” a capo del governo. In un’intervista al magazine del Sunday Times, Cameron ha cercato di mostrare tutta la calma e il fatalismo del mondo. E’ una decisione importante, sembra convinto di aver fatto la cosa giusta a indire questo referendum (ma non ci crede nessuno), dice di essere pronto ad accettare qualsiasi esito e non parla come uno che tra due giorni potrebbe essere costretto a dare le dimissioni. Il golpe interno è in lavorazione da tempo, ma Cameron fa intendere che non vorrà vendette e che naturalmente non se le aspetta.
In equilibrio, così si vuole mostrare il premier inglese. Dice che si distrae guardando “Il trono di spade” (fate voi tutte le analisi del caso), che tratta i sondaggi come un agricoltore tratta le previsioni del tempo, che incontra molti elettori indecisi tra la ragione o il cuore, che il suo rammarico è di non aver fatto passare l’idea che si può essere euroscettici senza votare “leave” – Tu lo sei? “Yes, of course” – e che non sente il referendum come un test su se stesso: è una visione del futuro, per questo ho chiesto il parere degli inglesi, dice. Altre testimonianze raccolte nell’entourage del governo rivelano nervosismo e pessimismo: incontriamo solo elettori dubbiosi, elettori che non andranno a votare, elettori che sostengono il “leave”, raccontano.
Il fatalismo è l’ultima arma rimasta a un premier che non si aspettava di perdere il controllo delle dinamiche di questo referendum. Quando annunciò una consultazione sulla questione europea, nel 2013, Cameron era convinto che l’argomentazione economica gli sarebbe bastata: con quella ha vinto il referendum in Scozia e con quella ha vinto, alla grande, le elezioni dello scorso anno. La strategia all’inizio ha funzionato, il “leave” ha dovuto inventarsi risposte creative – in modo a volte ridicolo come il riferimento al “modello albanese”, con il premier albanese che ha risposto sul Times: per favore, non prendeteci a modello! – e si è trovato in difficoltà. L’economia sarebbe stata sufficiente a Cameron, se le previsioni non fossero diventate eccessivamente catastrofiche, se non fosse scoppiata una crisi migratoria senza precedenti e se intorno non si fosse creato un fermento antisistema – populismi di ogni forma – molto invadente. Il “leave” ha formulato così una sintesi convincente dello scontro referendario: “Establishment vs People”, da una parte l’élite odiata incarnata da Cameron e da Bruxelles, e dall’altra la gente, gli inglesi che considerano l’Europa l’ostacolo più grande al loro benessere. In quest’ottica la battaglia di Cameron è diventata difficile, si è ritrovato sulle spalle non soltanto decenni di euroscetticismo britannico, ma nuove forme di scetticismo, continentali e americane, nei confronti dell’establishment, dei partiti tradizionali, dei trattati, del capitalismo, della globalizzazione, del liberismo. Il conflitto decisivo di questo decennio tutt’addosso, la possibilità di diventare il premier che ha vinto due referendum e due elezioni: a Cameron resta soltanto il fatalismo.
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