La Brexit non finisce qui
Bruxelles. Boris Johnson, Michael Gove e Nigel Farage possono cantare vittoria nella loro guerra politico-culturale all’Europa, dopo aver sostenuto la Brexit nel referendum sulla permanenza del Regno Unito all’Unione europea. I cittadini britannici ieri hanno deciso le sorti del loro paese. Ma se, oltre alla Brexit, Boris & Co. speravano anche di paralizzare il club Ue ci sono riusciti: la Commissione ha congelato tutti i dossier controversi, dalla liberalizzazione dei visti alla Turchia alla nuova Strategia globale per la politica estera, in attesa dell’esito ufficiale del voto britannico. Se l’intenzione era di impedire ai Ventotto ulteriori balzi di integrazione, l’esito è stato raggiunto: i capi di stato e di governo non sono in grado di mettersi d’accordo su come rispondere a nuove minacce di uscita dal club, se non con una vaga dichiarazione di intenti faticosamente scritta a Parigi e Berlino. Se volevano avviare un processo di disintegrazione dell’Ue, la missione è compiuta: il referendum sull’Europa è destinato a diventare il grande mantra delle prossime campagne elettorali nazionali. Perché, indipendentemente da quel che diranno i leader nei prossimi giorni per garantire a tutti che il progetto europeo è irreversibile e non ci sarà un effetto domino di “exit”, i movimenti e i partiti populisti della rivolta contro l’Ue intendono impossessarsi del referendum “come arma per sfidare le élite politiche tradizionali”, spiega l’European Council on Foreign Relations (Ecfr) in un rapporto che sarà pubblicato lunedì. Oltre a prolungare l’agonia dell’Ue, che dal “no” francese al trattato costituzionale del 29 maggio 2005 si paralizza ogni volta che è davanti a un voto popolare, l’effetto sarà di sabotare la politica europea. “Anche se i partiti della rivolta non prendono direttamente il potere, sono così potenti dal punto di vista politico che stanno costringendo i partiti del mainstream a adottare le loro posizioni”, spiega Mark Leonard, il direttore del think tank.
La contabilità dell’Ecfr dice che i “partiti della rivolta” – nuovi e vecchi populisti che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra – stanno chiedendo 32 referendum su questioni che hanno a che fare con l’appartenenza del loro paese all’Ue. A voler imitare il Regno Unito con un voto popolare sulla exit totale dall’Europa sono in tanti: il Front national e il Partito comunista in Francia; Alternative für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders in Olanda; la Lega nord in Italia; i comunisti del Kscm, i libertari del Partito dei cittadini liberi e i fascisti della coalizione Alba nazionale in Repubblica ceca; i Democratici svedesi in Svezia; il Partito del popolo danese in Danimarca; il Vlaams Belang fiammingo in Belgio; i nazionalisti di sinistra di Ataka in Bulgaria, i neonazisti del Jobbik in Ungheria; la destra del Partito conservatore del popolo in Estonia. I tedeschi di Afd vogliono anche un referendum sull’uscita dall’euro, come il Movimento 5 stelle (non conteggiato nella ricerca dell’Ecfr). I portoghesi del Blocco di sinistra (che sostengono il governo di minoranza del socialista António Costa) lo chiedono sul Patto di stabilità. Il referendum sull’allargamento è un tema prediletto degli austriaci della Fpö, il Fronte patriottico bulgaro si limita alla Turchia, mentre fiamminghi e tedeschi vogliono imitare il Pvv di Wilders sull’accordo di associazione con l’Ucraina. Altro tema alla moda è l’immigrazione (interna o esterna all’Ue), con un partito di governo, il Fidesz del premier ungherese Viktor Orbán, che intende far votare i suoi cittadini sulle quote per ripartire i richiedenti asilo. Il Ttip è in cima alla classifica dei referendum proposti dai populisti di estrema sinistra. Gli spagnoli di Podemos sono una minaccia per via del referendum sull’indipendenza della Catalogna, che potrebbe innescare una valanga di secessioni nazionali con richieste di adesione all’Ue.
Le ultime elezioni presidenziali in Austria, con la vittoria per 30 mila voti del verde europeista Alexander Van der Bellen sull’euroscettico della Fpö Norbert Hofer, dimostrano che anche i voti puramente nazionali si stanno trasformando in referendum sull’Ue. In Spagna domenica è Unidos Podemos che rappresenta il campo della rivolta, con il suo leader Pablo Iglesias che potrebbe rivendicare il posto di primo ministro dopo aver superato i socialisti del Psoe nei sondaggi. Il calendario elettorale del 2017 è ricco di occasioni per rivendicare referendum: politiche in Olanda entro marzo (con il Pvv di Wilders in testa nei sondaggi), presidenziali e Assemblea nazionale in Francia ad aprile e maggio (con il Front national di Marine Le Pen che al primo turno potrebbe arrivare in testa) ed elezioni federali in Germania in autunno (con Afd al 15 per cento e la grande coalizione Cdu-Spd sotto il 50 per cento). Come ha già fatto, Le Pen avrà gioco facile a presentarsi come “il difensore della libertà dei popoli di disporre del loro destino” e accusare i suoi rivali di appoggiare un’Ue “totalitaria” perché è da “11 anni che i francesi non sono interrogati”. A forza di sentire evocare referendum, le opinioni pubbliche si stanno convincendo che è necessario. Un sondaggio del Monde di marzo dice che il 53 per cento dei francesi vorrebbe esprimersi sulla “Frexit”. In Olanda è il 54 per cento, secondo una ricerca più recente della televisione pubblica. Almeno i referendum hanno un effetto chiarificatore. Il premier populista di Syriza, Alexis Tsipras, è stato costretto a una clamorosa marcia indietro sul suo referendum dello scorso anno, dopo aver capito che la “Grexit” avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per la Grecia. Ma fino a quando non ci sarà un incidente vero, senza espedienti giuridici o politici per rientrare dalla finestra, l’Ue rimarrà esposta allo tsunami del populismo referendario.
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