Il buio dopo la Brexit
Il giorno dell’indipendenza degli inglesi dall’Unione europea è sorto, la Brexit ha vinto, dopo 43 anni il matrimonio tra Regno Unito ed Europa è finito. I margini sono ridotti – 51,8 vs 49,2 – ma da 24 ore i mercati segnalano quell’instabilità di cui si è parlato molto nei mesi di campagna elettorale: la sterlina è passata dal suo record di forza, quando il “remain” pareva in testo e certo, al suo record di debolezza, quando nella nottata si è consolidata la forza del “leave”. Il grafico dell’andamento della sterlina è esemplificativo di quel che accadrà oggi e nei giorni a seguire, mentre il tempo che ci vorrà per l’assestamento ancora non è quantificabile.
Ancora una volta c’è stato un abbaglio statistico che ha fatto sì che molti andassero a dormire convinti che il timore della Brexit fosse superato per svegliarsi con un’Europa, per la prima volta della sua storia, tecnicamente a pezzi. I sondaggi davano un testa a testa doloroso, i mercati hanno dimostrato un ottimismo eccessivo (anche se molti analisti dicevano che la sterlina non stava crescendo con lo slancio atteso da una fiducia incondizionata nel “remain”), l’unico opinion poll pubblicato alla chiusura dei seggi dava il risultato 52-48 a favore dell’Ue e soprattutto una affluenza all’84 per cento circa. Chi vince la gara della mobilitazione vince il referendum, hanno ripetuto gli esperti per settimane, così di fronte a un dato stimato di affluenza così straordinario (la media inglese è al 70 per cento), il fronte del “leave” ha iniziato a fare commenti del tipo: pare che abbiamo perso. Nigel Farage, leader dell’Ukip e animatore della battaglia indipendentista da anni, è stato il primo a presentarsi alle telecamere (era anche stato il primo dei leader a votare in mattinata, la sua attesa era cominciata presto) ha detto che questa battaglia forse non era andata benissimo, ma “prima o poi” la guerra isolazionista sarebbe stata vinta. Ecco: quel prima o poi è adesso.
L’affluenza non era così alta, anche a causa del maltempo, i sostenitori del “leave” hanno votato in massa superando tutti i modelli statistici, mentre il cuore tiepido del “remain” è rimasto in linea con le aspettative, soccombendo. Al di là dell’errore di previsione e di stima, che peserà sul già acciaccato mondo dei sondaggisti, oggi inizia il regolamento dei conti politico ed economico dentro alla Gran Bretagna e nei rapporti con l’Unione europea. Il paese è diviso a metà, secondo una faglia che ha a che fare con l’età, ma ancor più con quella guerra sociale che si paventava da tempo e che rispecchia uno scontro in atto anche sul continente e negli Stati Uniti: l’impoverimento sostiene il voto di protesta. Lo Spectator in edicola da ieri e il New Statesman oggi, senza conoscere il risultato finale, hanno entrambi in copertina il concetto di paese spaccato, diviso, pur essendo uno a favore della Brexit e uno contro. Nel conflitto “Establishment vs Peopole”, l’establishment ha perso, e questo avrà ripercussioni su tutti: sulla voglia di “exit” europea, sui movimenti e partiti che raccolgono il malcontento euroscettico e non solo e anche sulle elezioni americane.
Oggi arriva Donald Trump in Scozia, e i paragoni con la visita nel Regno Unito che si è rivelata inutile – controproducente? – di Barack Obama si moltplicheranno. I Tory dovranno unirsi attorno al perdente David Cameron e affidare a lui il negoziato della Brexit: ieri sera è stata consegnata una lettera con 84 firme che comprendevano anche i leader della Brexit, per confermare la fiducia al premier, ma nella notte anche quella concessione è sembrata eccessiva. Qualcuno parla di elezioni anticipate, altri suggeriscono un cambiamento alla guida del governo, pochi vedono in Cameron il garante di una transizione. Che è invece il ruolo che gli riserva l’Europa, oggi atterrita da questo evento senza precedenti. Si inizierà a parlare di Articolo 50, di procedure, dei due anni di tempo che sembrano nulla per riscrivere più di 50 accordi, 80 mila pagine di testi che regolamentano il rapporto tra Londra e Bruxelles. “Out is out” è il mantra europeo che ostenta i suoi piani B dicendo agli inglesi: peggio per voi. Per ora è peggio per tutti, non c’è scenario di Brexit, anche quelli di chi oggi si sente sollevato e liberato, che non dica: nel breve periodo si soffre.