God save the Eu
Roma. E ora? Che fare per evitare che gli effetti tossici del referendum britannico si trasmettano ad altri paesi europei, portando a nuovi quesiti “in or out” e quindi come in un gioco di birilli all’uscita di altri partner? Che fare, non nel prossimo anno, ma nelle prossime settimane per rispondere all’ansia dei mercati finanziari che ieri hanno tracollato come ai vecchi tempi di Lehman Brothers e dell’inizio della Grande recessione? Già perché il calendario politico europeo metterebbe fretta in qualunque situazione, a maggior ragione oggi: elezioni generali in Spagna questa domenica, in Olanda nel marzo 2017, poi in Francia a maggio e in Germania nell’autunno sempre del prossimo anno. Che fare è l’interrogativo che senza scomodare Lenin si trova oggi sul tavolo delle cancellerie europee. Lunedì prossimo, alle 18, il presidente del Consiglio Matteo Renzi volerà a Berlino per una riunione convocata ieri assieme alla cancelliera tedesca, Angela Merkel, al presidente francese, François Hollande, e al presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. La forma trilaterale del summit, invece del più consueto bilaterale tra Berlino e Parigi, è già “una novità politica”, dicono a Palazzo Chigi. Non ancora abbastanza per decifrare in quale direzione Bruxelles e Roma vogliano dirigersi per parare il colpo inferto dal voto di giovedì.
Qualcuno si era espresso già prima del referendum sulla Brexit. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, aveva detto nei giorni scorsi che “se nel Regno Unito vincerà il no alla permanenza nell’Unione europea la risposta dovrà essere la costruzione di un’Europa più integrata”, riecheggiando il tradizionale approccio federalista tedesco ma sottintendendo anche una Europa più interconnessa a trazione germanica. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, sembra intenzionato a raccogliere il testimone della creazione di un ministro delle Finanze europeo passatogli dai governatori della Bundesbank, Jens Weidmann, e della Banque de France, Villeroy de Galhau. Una reazione a effetto che potrebbe avere però un valore soprattutto simbolico se non sostanziata da reali poteri. Un colpo di reni per scongiurare lo sfaldamento si impone, certo. Il punto è che le opzioni in circolazione al momento appaiono due e sono simmetriche: più integrazione alla Schäuble, e dunque non una minore ma una maggiore disciplina finanziaria, oppure più concessioni in materia di bilanci, fisco e banche ottenute tirando la giacchetta a Berlino con il retropensiero che la “colpa” dell’euroscetticismo dilagante sia quasi se non tutta dei nein della Germania. Insomma, più ordoliberalismo o più Keynes? E’ una linea di faglia questa, ideale e geografica al tempo stesso, che separa approcci e zone diverse del continente.
Secondo Lorenzo Bini Smaghi, ex componente del board della Banca centrale europea e attuale presidente di Société Générale, sarebbe un errore interpretare il malessere generale che serpeggia in molti paesi come un “no” all’Europa: “Il voto inglese è un ‘no’ a tante cose, all’establishment, alle ineguaglianze, alle mancate speranze dei giovani, alle diversità legate all’immigrazione. Dunque è sbagliato pensare di venire incontro a queste domande con più spesa pubblica e maggior deficit”. Da più parti si è già rimproverato a Merkel di avere fatto troppe concessioni – alla Grecia, all’Italia, alla Francia – consentendo così il rafforzamento della destra populista perfino in Germania. “Se continuerà a fare concessioni – dice l’analista di una grande banca di Francoforte – verrà spazzata via alle prossime elezioni che si trasformeranno in un referendum informale sull’Europa”.
Ecco di nuovo il problema della “leadership riluttante” di Berlino. Da una parte accusata per le troppe concessioni fatte ai paesi dell’Europa periferica, dall’altra additata come guida troppo autoritaria. Conferma Bini Smaghi che “la Germania da sola non farà da traino, proprio per evitare poi di essere criticata. Dovrà esserci semmai un gioco di squadra per costruire insieme non per avanzare rivendicazioni”. Bini Smaghi non dà troppo peso neppure alla possibile creazione di un ministro delle Finanze europeo: “Si rischia di creare un’altra struttura burocratica con la quale i cittadini stentano a identificarsi”. E invita invece a considerare che non tutto è nelle mani dell’Europa, molto è anche nelle possibilità delle politiche nazionali “come la scuola, la sanità, la concorrenza”. L’uscita del Regno Unito, invece, può aiutare “a europeizzare le frontiere esterne coinvolgendo per la loro difesa forze veramente europee”. Insomma, nell’establishment comunitario c’è almeno un’idea di massima su come rintuzzare la Brexit: riforme radicali a livello nazionale e passi avanti non simbolici sull’integrazione tra chi è rimasto nel club, specie quello dell’euro.
Con i listini a picco e la sensazione di trovarsi in una congiunzione difficile tra populismi montanti, precaria situazione finanziaria, alto debito, il clima che si respira nei paesi della periferia del sud Europa è di tono quantomeno diverso, se non addirittura contrapposto. La speculazione ieri ha colpito in modo molto aggressivo gli indici di Borsa a Milano, Madrid e Parigi, con ribassi che nel caso delle banche (tutte anche quelle inglesi, ma in particolare quelle italiane e spagnole) hanno sfiorato il 20 per cento, generando perdite di capitalizzazione che si aggiungono a una situazione già difficile. Nei mesi scorsi Italia e Francia si sono intestate la correzione delle politiche europee nel senso di una maggiore flessibilità di bilancio. Adesso temono che l’avanzata dei populismi in Germania, Olanda e negli altri paesi nordeuropei porti a una controcorrezione. Secondo Gregorio De Felice, capoeconomista di Intesa Sanpaolo, “l’Europa deve muoversi verso una maggiore coesione che non può significare tuttavia un ulteriore irrigidimento dei vincoli, altrimenti i mercati ci punirebbero più di quanto non abbiano già fatto”. Non è soltanto questione di conti pubblici, ma anche di regole su salvataggi bancari e ricapitalizzazioni. D’altronde, chi vorrà apparire come un maestrino con il dito sempre alzato, dopo il voto di giovedì? A Merkel, Hollande e Renzi toccherà compiere il primo tentativo per districarsi in questa situazione.