Altro che populismi. L'Europa va contro un iceberg, la demografia. Parla Piñera

Marco Valerio Lo Prete
Non lasciatevi confondere dal frastuono mediatico: non è la Brexit l’iceberg contro cui si sta andando a schiantare il Titanic chiamato Europa, ma è la demografia.

Roma. Non lasciatevi confondere dal frastuono mediatico: non è la Brexit l’iceberg contro cui si sta andando a schiantare il Titanic chiamato Europa, ma è la demografia. E da oggi al momento dell’impatto con l’iceberg, i movimenti populisti non potranno che avvantaggiarsi dei fallimenti di un welfare state diventato inefficiente, ridondante e dunque largamente insostenibile, specie nei paesi latini a bassa crescita e alta disoccupazione come Italia, Francia e Spagna. E’ questo il senso della conversazione che il Foglio ha avuto con José Piñera, economista di fama mondiale, Distinguished senior fellow del Cato Institute, già ministro del Lavoro dal 1978 al 1981 nel Cile di Augusto Pinochet, ideatore della privatizzazione del sistema pensionistico su cui quel paese ha poggiato le basi di una crescita spettacolare dagli anni 80 a oggi.

 

Piñera – a Roma per un evento organizzato dall’Istituto Bruno Leoni intitolato: “Populismi. Lezioni latinoamericane per l’Europa” – ha commentato così il voto inglese per uscire dall’Unione europea: “Era sbagliato dall’inizio pensare che quel dibattito fosse tutto bianco o nero, cioè da una parte il bene e dall’altra il male. In realtà, da economista, non vedo cambiamenti di lungo termine per Londra in caso di vittoria del ‘Remain’ o del ‘Leave’. Mi limito a osservare che si è trattato di un dibattito tutto politico, sulla sovranità, e quindi un dibattito legittimo in un paese democratico come il Regno Unito”. Gli europei, indugiando in dibattiti sulle conseguenze economiche della Brexit o sul ruolo dell’euro, perdono di vista il quadro generale: “Dovreste discutere dei tassi di crescita vicini allo zero, della disoccupazione strutturale generata da una legislazione rigida sul lavoro, della pervasività della regolamentazione, del welfare state che si avvicina alla bancarotta, in definitiva della mancanza di libertà economica”, dice Piñera. Rimane il fatto, ne converrà, che mentre in Europa il termine “populismo” è diventato il più citato nelle analisi politiche contemporanee, in America Latina lo stesso populismo non sembra godere di buona salute, tra cambiamenti di governo in Argentina e Brasile, con l’eclissarsi di Chrstina Kirchner e Dilma Rousseff, e l’elezione di Pedro Pablo Kuczynski in Perù: “Il vostro, anche qui, è un problema di prospettiva, troppo concentrato sulla sola costa atlantica del mio continente. La vera notizia che arriva da quell’area è l’espandersi della rivoluzione liberale e di mercato avviata quarant’anni fa proprio in Cile, sulla costa pacifica. Il Cile è un paese che è passato da un reddito pro capite di 4.000 dollari nel 1975 a 23.000 dollari oggi, mentre il tasso di povertà è passato dal 50 per cento all’8 per cento oggi. Poi questo processo ha toccato il Perù, poi la Colombia, quindi il Messico e adesso iniziate a vederlo anche altrove”. Piñera riconosce che “l’America latina ha avuto dei Generali fondatori invece che dei Padri fondatori. I grandi liberatori come Bolìvar, San Martin, O’Higgins e Sucre, combatterono eroicamente per liberare i loro paesi dal controllo spagnolo. Ma una cosa è saper combattere, un’altra saper governare. I liberatori e i loro successori non hanno radicato nelle giovani repubbliche i valori della libertà individuale, dello stato di diritto, e non hanno posto un argine al potere pubblico nei confronti dei cittadini. Risultato: nella maggior parte dei paese dell’area mancano, ancora oggi, le istituzioni e i principi di una vera democrazia al servizio della libertà. Ecco perché in America Latina c’è stato a lungo un terreno fertile per il populismo”.

 

Piñera fa il confronto tra l’America Latina e gli Stati Uniti, paese che iniziò ad amare – ci racconta – durante il suo dottorato in economia all’Università di Harvard: “Come ha sottolineato lo storico Claudio Veliz, il Nuovo mondo nacque quasi allo stesso tempo nel Nord e nel Sud dell’America, a partire dai due più grande imperi dei tempi moderni. Un gruppo partì povero, nel Nord, l’altro ricco, nel Sud. Ma nel giro di 500 anni le posizioni si sono invertite. Gli Stati Uniti generavano un pil di 12 miliardi di dollari nel 1820, destinato a salire a 313 miliardi nel 1900 e poi a 18 mila miliardi nel 2015, il tutto misurato in valore attuale. Questa espansione è stata possibile in larga parte grazie alle istituzioni e alla cultura politica iniettate negli Stati Uniti dai Padri fondatori, cioè Jefferson, Madison, Hamilton, Adams, Franklin e Washington tra gli altri. La Dichiarazione d’Indipendenza, la Costituzione, il Bill of Rights, i Federalist Papers sono alcune delle grandi opere che hanno posto le fondamenta filosofiche, politiche, morali ed economiche di questa nuova nazione”. Piñera a questo punto ricorda quando, nel 1974, stava terminando i suoi studi ad Harvard: “Mi si schiuse davanti la possibilità di rimanere a insegnare negli Stati Uniti, ma proprio allora presi la decisione più difficile della mia vita: tornare nel mio paese per aiutare a ricostruire l’economia e la democrazia, ispirato proprio dai Padri fondatori americani”.

 

Lo storico scozzese Niall Ferguson, nel suo libro “Ascesa e declino del denaro”, ha scritto che la riforma del sistema pensionistico ideata alla fine degli anni 70 e poi implementata da Piñera nel 1981, cioè il passaggio netto da un modello a ripartizione a uno a capitalizzazione, è stato “il cambiamento più profondo del welfare state in un’intera generazione. Thatcher e Reagan sono arrivati solo dopo. La ritirata del welfare è iniziata qui”. Quando si decise cioè che i lavoratori avrebbero smesso di pagare, versando i propri contributi, le pensioni erogate negli stessi anni, e si optò piuttosto perché ciascun lavoratore, liberato dall’obbligo dei contributi, fosse obbligato ad accantonare ogni mese una quota del suo stipendio per pagare la propria pensione futura. Quell’accantonamento individuale sarebbe cresciuto negli anni, fino alla vecchiaia, perché investito – con tutte le salvaguardie nel caso – da appositi fondi privati. All’economista cileno chiediamo di illustrarci la ratio che fu dietro quella scelta: “Innanzitutto l’idea che il mondo sarebbe stato un posto migliore se ogni lavoratore fosse diventato anche proprietario di un po’ di capitale. I lavoratori avrebbero beneficiato così dell’apprezzamento di valore degli asset su cui investivano nel lungo periodo e si sarebbero sentiti più legati alla performance complessiva dell’economia. Gli interessi dei lavoratori sarebbero stati più in linea con gli interessi di coloro che avrebbero controllato quegli asset, ci sarebbe stata minore diseguaglianza e i lavoratori avrebbero dato più peso ai diritti proprietari e allo stato di diritto. Soprattutto, i lavoratori avrebbero arricchito di libertà e dignità la propria vita. Infatti Karl Marx aveva ragione quando diceva che se i lavoratori avessero potuto disporre soltanto della loro forza lavoro sul mercato, si sarebbero sentiti in larga parte alienati. Tuttavia il filosofo di Treviri sbagliava profondamente quando sosteneva che il controllo collettivo sulla proprietà avrebbe offerto agli stessi lavoratori un senso di sicurezza e di controllo sulle loro vite. Liberare i lavoratori vuol dire dare loro accesso alla proprietà individuale del capitale, nel contesto di una economia di mercato”. Piñera, allora ministro, ritenne che “la crisi del sistema pensionistico” celava “una enorme opportunità” per rafforzare i lavoratori senza che questi ricorressero a espropriazioni o rivolte violente: “Nella maggior parte dei paesi, i lavoratori dipendenti erano già allora costretti a contribuire con una quota compresa tra il 10 e il 30 per cento del loro stipendio mensile a dei sistemi pensionistici a ripartizione, detti anche pay-as-you-go. La trasformazione di questi classici sistemi pensionistici in sistemi in cui la ricchezza è accumulata in conti individuali ha generato un nuovo paradigma, quello dei lavoratori-capitalisti”. Al cambiamento culturale si sono affiancati mutamenti profondi della struttura finanziaria e industriale: oggi in Cile il totale dei risparmi pensionistici è pari al 70 per cento del pil, un ammontare completamente investito in bond societari, azioni e titoli di stato, al punto che molte delle più grandi società del paese sono partecipate dai fondi pensionistici e hanno alcuni loro occhiuti rappresentanti nei propri cda.

 

Seguendo il filo rosso delle pensioni, il ragionamento di Piñera si riavvicina all’Europa: “Mentre gli Stati Uniti crescono e l’America Latina dimostra di avere valide alternative al populismo a sua disposizione, oggi è il Vecchio continente a preoccuparmi di più. E in particolare i paesi latini come Italia, Francia e Spagna”. Colpa dei populisti? “Le etichette non aiutano le riflessioni ponderate e approfondite. Quelli che chiamate ‘populisti’ possono essere pericolosi, perché come tutti i populisti offrono soluzioni semplicistiche che, una volta realizzate, dispiegano i loro effetti crudeli proprio sulle persone più deboli che volevano difendere. Detto ciò, i populisti stanno scalando le macerie lasciate dal welfare state”. In Europa l’opinione mainstream è un’altra: il liberismo smonta il welfare state, e da qui nasce un sentimento di rabbia diffusa. Piñera invece insiste: “Una rete sociale per i poveri e i disagiati va mantenuta, ma in Europa la costruzione chiamata welfare state è finita fuori controllo: una tassazione al 40 per cento sul lavoro, per esempio, non può che generare disoccupazione strutturale. Ne volete una dimostrazione? In Italia il pil pro capite non cresce da quasi 20 anni, prim’ancora che arrivassero i 5 stelle o chi per loro”.

 

Cosa si chiede a un leader politico


In Europa dovremmo pensare più a distribuire la proprietà privata che la ricchezza, partendo da una rivoluzione in campo pensionistico sulle orme del modello cileno. A dire il vero, replichiamo, ovunque in Europa, Italia inclusa, si è già messo mano almeno a questo dossier, alzando finalmente l’età pensionabile: “Ma questo rimane in tutto e per tutto un approccio tecnocratico al problema! – esclama Piñera – Il punto è che gli europei è come se fossero sul Titanic, destinato a schiantarsi contro un iceberg che è l’inverno demografico: sempre meno persone che nascono e lavorano a fronte di un numero crescente di pensionati sempre più longevi. A forza di alzare le tasse su lavoro e imprese per pagare questo sistema, in Europa alimentate la disoccupazione. Non solo: quando abbassate l’età pensionabile, state accelerando un po’ nella direzione dell’iceberg, quando la alzate state frenando, ma far virare il Titanic ormai è impossibile. L’unica soluzione è cambiare nave, saltare su una scialuppa di salvataggio come il sistema pensionistico a capitalizzazione”. E’ davvero possibile una transizione simile in un’economia matura come la nostra? “E’ difficile, ma è tecnicamente possibile – risponde Piñera – Quando nessuno sul Titanic potrà più fingere di non vedere l’iceberg, allora gli europei salteranno giù dal Titanic. Sperando che non sia tardi”. A condizione, conclude, che si palesi “una leadership politica all’altezza”, che faccia suo il seguente motto: “Vivi pericolosamente, fai riforme. Magari torni a casa, ma cambi il futuro”.

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