C'è un effetto Rajoy
Roma. Non solo effetto Brexit: parliamo di effetto Rajoy. Dopo la notte elettorale spagnola, al netto delle considerazioni geostrategiche e dei sondaggi clandestini che mostravano come la paura per l’instabilità europea stesse spingendo gli spagnoli verso i porti sicuri dei partiti tradizionali, alla fine è stata la forza decisamente inattesa del premier conservatore Mariano Rajoy la variabile fondamentale della vittoria delle elezioni di domenica in Spagna. Rajoy è stato capace di coagulare intorno a sé il bisogno di stabilità, e gli elettori lo hanno premiato con 137 seggi, l’unico a crescere nettamente rispetto ai 123 ottenuti sei mesi fa. Aggiungiamo a questo la tenuta del socialista Pedro Sánchez, che respinge con successo il tentativo di “sorpasso” degli antisistema di Podemos, e le elezioni che avrebbero dovuto sotterrare il bipolarismo sono diventate l’inizio di una lieve riscossa. “Il bipartitismo è tutt’altro che morto, e questa è la notizia migliore di questa tornata elettorale”, dice al Foglio Bieito Rubido Ramonde, direttore di Abc, il quotidiano conservatore più influente di Spagna. L’altra è il crollo di Podemos. L’alleanza degli antisistema, che comprende i postcomunisti di Izquierda Unida, ha perso più di un milione di voti rispetto a sei mesi fa e deve affrontare una crisi epocale: “Mi arrischio a dire che dopo questo disastro il loro tempo potrebbe essere terminato”, dice Rubido.
Nel suo editoriale di lunedì, il direttore di Abc ha scritto che “benché tutto sembri un po’ uguale a ieri, in realtà tutto è cambiato”. In effetti, la Spagna è ancora senza una maggioranza (nessun partito raggiunge i 176 deputati necessari) e sono ricominciate le schermaglie tra i leader che lasciano preannunciare negoziati duri. Ma rispetto a sei mesi fa, gli elettori hanno lanciato un segnale tutto diverso. Anzitutto, sembra essersi sgonfiato il fascino per la “retorica della rigenerazione” che aveva spinto in alto nei sondaggi Podemos e Ciudadanos, i due grandi sconfitti di queste elezioni (la formazione centrista di Albert Rivera ha perso 8 deputati dei 40 ottenuti a dicembre). “Il problema è che la rigenerazione tanto decantata in realtà non c’è mai stata, e gli elettori l’hanno capito”, dice Rubido. “Le esperienze di governo locale a Barcellona, Madrid, La Coruña, Cadice, Saragozza, dove in un modo o nell’altro Podemos o Ciudadanos hanno partecipato al potere, si sono dimostrate uno spettacolo terribile, con casi di incompetenza e a volte perfino nepotismo”. In secondo luogo, è stato ribadito una volta per tutte che “la società spagnola non è una società di estremismi. Podemos ha cercato di rivendersi prima come partito comunista, poi socialista, poi di stampo peronista, ma gli spagnoli hanno capito il suo gioco”.
La situazione è cambiata anche nei numeri. L’imposizione del Partito popolare, seppure lontana dalla maggioranza, lascia Rajoy come un candidato quasi inevitabile. Il premier facente funzioni lunedì ha lanciato un appello alla “responsabilità” delle forze costituzionali, e i calcoli elettorali dicono che se il Pp riuscisse a sommare i suoi voti a quelli di Ciudadanos e ai pochi deputati dei gruppi indipendentisti, basterebbe un singolo voto socialista, o un’astensione, per dare il via a un governo di minoranza. Per ora tanto Rivera quanto Sánchez si mostrano arcigni e negano il loro appoggio, ma è difficile immaginare che questa volta i negoziati possano impantanarsi di nuovo. Rajoy, che lo scorso dicembre era rimasto fermo a guardare gli altri scontrarsi contro i rispettivi veti, questa volta “deve negoziare con intelligenza e generosità l’appoggio di Ciudadanos e dei nazionalisti, convincere i socialisti all’astensione e poi varare un governo di principio e compromesso, in cui siano affrontate le due questioni più urgenti in Spagna, l’educazione e la giustizia”, dice Rubido. Certo, “la soluzione migliore sarebbe una grande coalizione”, ma per ora basta Rajoy a fare scudo all’avanzata dei populismi.
L'editoriale dell'elefantino