I terroristi islamici sono figli delle classi ricche e dell'ideologia
Roma. Il Bangladesh, seppure in forte crescita economica, è uno dei paesi più poveri del mondo, meta preferita della manifattura tessile delocalizzata e luogo simbolo dello sfruttamento del sottoproletariato globale. La spiegazione della strage di Dacca, in cui sono stati trucidati 20 ostaggi, tra cui nove italiani e due poliziotti, doveva quindi rientrare nello schema della reazione delle masse diseredate al disagio sociale imposto dalla globalizzazione occidentale. Invece la biografia dei terroristi rivela che gli assassini dell’Holey Artisan Bakery sono rampolli della classe dirigente bengalese, figli di politici, militari, docenti, istruiti nelle più prestigiose scuole del paese.
Se i media stavolta sottolineano la provenienza sociale dei mujaheddin è perché c’è una certa sorpresa nell’accogliere la notizia che i torturatori islamisti provengano dalle classi benestanti e non dai ceti disagiati. Eppure i profili di importanti figure del terrorismo islamico – Bin Laden, al Zawahiri, Mohamed Atta, Khalid Sheikh Mohammed, al Awlaki – tutti istruiti e provenienti da un contesto agiato, avrebbero dovuto far svanire il nostro stupore già da un pezzo. Sono stati prodotti diversi studi sui motivi che spingono le persone verso il radicalismo islamico e in nessun caso emerge che siano la povertà e la diseguaglianza a fornire truppe al terrorismo, come invece sostiene gran parte del ceto intellettuale occidentale, a partire dalle riflessioni dell’economista Thomas Piketty o Papa Francesco a Nairobi dopo il massacro del Bataclan. Gli economisti Efraim Benmelech e Esteban F. Klor confermano in uno studio recente che se c’è un legame tra le condizioni politico-economiche e la decisione dei foreign fighters di arruolarsi nell’Isis, è l’opposto di quello predicato dalla retorica post marxista.
Nel paper dal titolo “What explains the flow of foreign fighters to Isis?”, pubblicato dal National bureau of economic research, Benmelech e Klor mettono in relazione i dati sui 30 mila foreign fighters con gli indicatori economici dei paesi di provenienza e concludono che “le condizioni economiche di povertà non spingono all’adesione all’Isis”. Al contrario, il numero di foreign fighters è correlato positivamente con il pil pro capite e l’Indice di sviluppo umano: “Molti foreign fighters provengono da paesi con elevati livelli di sviluppo economico e bassa diseguaglianza di reddito”. E’ la Finlandia lo stato che sforna il più alto numero di combattenti islamici al mondo in rapporto alla popolazione musulmana, un paese tre i più ricchi ed egalitari a livello globale. Nella top ten ci sono Irlanda, Belgio, Svezia, Austria, Danimarca e Norvegia, che rispondono allo stesso identikit della Finlandia. Il numero di militanti sulla popolazione musulmana residente inoltre “è correlato negativamente con la diseguaglianza economica, non altamente correlato con la disoccupazione. Questi risultati – concludono nella ricerca – contraddicono le recenti affermazioni di Thomas Piketty”, secondo cui il terrorismo è figlio della disguaglianza e dell’austerità.
Seppure aggiunga elementi nuovi, non si può neppure dire che questa ricerca porti a conclusioni rivoluzionarie, visto che la letteratura sul tema è abbastanza univoca. Già Alan Krueger, economista liberal di Princeton e consulente di Barack Obama, nel libro “What makes a terrorist” aveva affermato sulla base di un’analisi empirica che “i terroristi arrivano dalle file delle persone più istruite piuttosto che dalle masse ignoranti e non scolarizzate”. A conclusioni simili giunge Alberto Abadie, economista a Harvard, nello studio “Poverty, Political Freedom, and the Roots of Terrorism”. Anche Abadie nella sua indagine empirica sul terrorismo nazionale e internazionale sostiene che “il rischio terrorismo non è più alto nei paesi poveri” e ancora che “non c’è una significativa associazione tra terrorismo e variabili economiche come il reddito”. Non è la prima analisi che giunge a conclusioni del genere. Studiando il tipo di legame esistente tra povertà e terrorismo in Palestina, Claude Berrebi aveva già rilevato che un migliore standard di vita e un livello d’istruzione elevato sono associati positivamente alla partecipazione in organizzazioni come Hamas o il Jihad islamico e alla propensione a diventare un attentatore. Sempre Krueger – in un altro studio con Jitka Malecková sui crimini legati al terrorismo in Cisgiordania, Striscia di Gaza e sulla militanza in Hezbollah – sostiene che “né la povertà né l’istruzione hanno un impatto diretto o causale sul terrorismo”.
Se non sono la povertà, la diseguaglianza e l’ignoranza, qual è la benzina del terrorismo? Benmelech e Klor vedono una correlazione con la difficoltà a integrarsi nei paesi etnicamente più omogenei e concludono dicendo che “anche se non siamo in grado di determinare perché le persone si arruolano nell’Isis, i nostri risultati suggeriscono che il flusso di foreign fighters verso l’Isis non deriva da condizioni politiche o economiche, ma piuttosto dall’ideologia politica e religiosa”. Insomma, il terrorismo islamico – come peraltro suggerirebbe il termine – ha a che fare con l’islam politico, con il retroterra ideologico-culturale più che con le condizioni economiche.