La “sottomissione” del Bangladesh che fa paura a tutta l'Asia
Roma. “Qui non valgono le regole dei paesi occidentali. Sono stufo dei giornalisti, degli ecologisti e degli attivisti delle ong che ci spiegano come vivere”, diceva a muso duro un capo-operaio di Chittagong, in Bangladesh. Aveva scoperto un giornalista del Foglio nei cantieri dove sono demolite le navi in condizioni di lavoro abominevoli. E’ anche in questa contrapposizione di valori e visioni della vita che bisogna analizzare l’attentato di venerdì sera alla Holey Artisan Bakery di Dhaka. E’ uno “scontro di civiltà” tra i valori universali sanciti in occidente e quelli che sono definiti valori asiatici o islamici, caratterizzati da una cultura ultraconservatrice, sostenuta da forti componenti religiose o da una politica che affonda le sue radici in una filosofia mistica e non in un’ideologia.
Solo i seguaci di un vetero terzomondismo possono stupirsi che i dodici attentatori appartenessero a famiglie ricche. “Uno di loro viveva a pochi passi da quel locale, nel quartiere di Gulshan 2, un’enclave di ambasciate, residenze per espatriati”, dice al Foglio Valentina Lucchese, rappresentante di Terres des Hommes in Bangladesh. In un primo momento anche Valentina s’era stupita. “I ragazzi di quel tipo pensano a divertirsi. Il brodo di coltura dei terroristi sono le madrasse, le scuole islamiche. Altri si formano all’estero, nei paesi del Golfo, dove vanno a lavorare e tornano indottrinati”. Superato lo choc, Valentina s’è posta dei dubbi. “L’islam si diffonde in Bangladesh anche come rivendicazione nazionalista, antioccidentale. In questa forma fa presa tra le classi più alte. Gli intellettuali laici cominciano a trovarsi in minoranza”. Una “Sottomissione” al curry.
Per confutare la matrice di classe all’origine del terrorismo islamico basterebbe riflettere sul fatto che in molti dei paesi più ricchi del mondo (come il Sultanato del Brunei) sia in vigore la sharia. Un esercizio altrettanto futile, per non dire ambiguo, è il dibattito sul gruppo di appartenenza o ispiratore degli attentatori. In Bangladesh, considerato un paese islamico “moderato”, operano gruppi come l’Ansarullah Bangla Team (Abt), collegato ad al Qaida, o come il pro Isis Jamaat ul Mujahedeen Bangladesh (Jmb), entrambi fuorilegge. Ma il principale partito d’opposizione, il Bangladesh Nationalist Party, ha sostenuto il Jmb e oggi sponsorizza il Jamaat-e-Islami, organizzazione che sostiene l’introduzione della sharia. La forza laica e moderata, in compenso, è rappresentata dalla Awami League, il partito al governo, che si è dimostrato incapace di far fronte all’ondata di attentati e omicidi, negando la presenza di gruppi terroristici nel paese o addossando la responsabilità all’opposizione. Il governo non vuole alienarsi il favore popolare, tantomeno quello dei militari, molti dei quali sono contrari alla laicità dello stato.
Come nota un giornalista locale, la diffusione dell’islamismo dipende soprattutto da un atteggiamento di giustificazionismo, se non conciliazione, nei confronti degli estremisti, che hanno cominciato a presentarsi quali difensori di un’ortodossia religiosa e culturale. Utilizzano i social per radicalizzare i giovani, focalizzando i loro obiettivi su figure che il mainstream considera negative: i gay, gli atei, i rappresentanti della globalizzazione occidentale. “La mia vita in Bangladesh è cambiata”, conferma Valentina. “Ero abituata a tornare di notte a casa a piedi oppure in risciò. Ora posso spostarmi solo in auto. Mai di notte. Prima le ragazze indossavano il sari, ora è sempre più diffuso il burqa. Comincio a sentirmi addosso gli sguardi della gente: in quanto donna e in quanto bideshi, straniera”. Il Bangladesh potrebbe essere considerato un caso limite, dimostrazione del rapporto di causa-effetto tra povertà ed estremismo. Ma com’è stato dimostrato dall’attentato di venerdì, tale analisi non è solo scorretta. E’ rischiosa.
Il Bangladesh rappresenta l’anello debole nella diffusione dell’islam nel sud e nel sud-est asiatico (i musulmani sono quasi la metà dei 625 milioni di abitanti dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico). E’ la prima tessera nel domino che dovrebbe portare alla diffusione di al Qaida nel subcontinente indiano e che ha come obiettivo finale la costituzione di un califfato islamico che comprenda Malaysia, Indonesia, Singapore, sud della Thailandia e sud delle Filippine. E’ lo scenario delineato da Dennis Ignatius, ex diplomatico malaysiano. “Violenti gruppi jihadisti che traggono ispirazione e sostegno da al Qaida e dall’Isis hanno attecchito nelle Filippine, in Indonesia, Malaysia e Thailandia. Attentati, attacchi suicidi, decapitazioni e violenze contro innocenti civili sono divenuti ricorrenti”. Il contagio ha raggiunto anche la Malaysia, sinora scampata ad attacchi terroristici dell’Isis (il 28 giugno è esplosa una granata in un bar di Kuala Lumpur, ci sono stati otto feriti, l’attacco è stato rivendicato ma sono ancora in corso le verifiche delle autorità).
La progressione può divenire virale se si considera il numero di lavoratori del sud-est asiatico impiegati in medio oriente e delle centinaia di migliaia di thai-malesi che fanno la spola tra i due paesi. Senza contare i rohingya, oggi metafora della tragedia della condizione umana. Etnicamente assimilabili ai bengalesi, i loro antenati emigrarono dal Bangladesh in Birmania. Ma qui sono considerati immigrati illegali, vittime designate per ogni violenza. Molti di loro sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh, dove sono confinati in campi privi d’ogni assistenza e dove la loro disperazione alimenta potenziali sacche di terrorismo: i simpatizzanti dell’Isis hanno invitato i rohingya a combattere in Siria per sfuggire alle persecuzioni in Birmania. In occidente molti parlano di “genocidio” riferendosi al tragedia dei rohingya. In Birmania, però, materializzano una paura sempre più diffusa: quella di un’invasione musulmana su due fronti: esterno, dal Bangladesh, e interno, con l’allargamento della popolazione musulmana. Ha dichiarato Aung San Suu Kyi: “C’è la sensazione che il potere musulmano, il potere musulmano globale, sia molto forte”.
Paradossalmente chi sembra indicare una soluzione è il neopresidente filippino Duterte: ha cercato il dialogo con le formazioni islamiche, minacciando una feroce repressione se non avessero deposto le armi. Se proprio non volevano, avrebbero dovuto usarle contro i trafficanti di droga. Un paradosso che appare ridicolmente violento. Ma è tale perché l’occidente si ostina a considerare “universali” i propri valori. Bisognerebbe applicare il relativismo culturale non all’interno bensì all’esterno: accettare le diversità che non sono una minaccia.