Il cameronismo è stato altro e molto di più di un referendum sciagurato
Milano. Il camioncino blu è arrivato presto ieri mattina davanti al numero 10 di Downing Street, carico di scatoloni vuoti che entro oggi saranno riempiti da David Cameron e dalla sua famiglia che stanno impacchettando sei anni di vita in quei celebri appartamenti. Da questa sera Cameron non è più il premier del Regno Unito, lascia il posto a Theresa May, tornerà a fare il family man, anche se molti si aspettano che non lo farà per molto a tempo pieno. I retroscenisti – che in queste ultime settimane hanno avuto di che dilettarsi nei tanti colpi di scena del post referendum sulla Brexit – dicono che Samantha, la first lady, sia la più sollevata: potrà ricominciare a lavorare, a indossare i suoi vestiti costosi ed eleganti cui aveva rinunciato per non alimentare la percezione della coppia troppo posh per comprendere il paese, a compilare le sue immancabili liste, ordinata e programmatrice com’è, e a non doversi giustificare delle sigarette che ha ricominciato a fumare in questi mesi tremendi di campagna referendaria. David Cameron invece non sente tutto questo sollievo – se non, raccontava ieri il Daily Telegraph, perché non dovrà più occuparsi del gatto: Lenny resta a Downing Street, Cameron non lo ha mai amato, a lui piacciono i cani. Non si aspettava di lasciare la premiership così presto e i queste condizioni e ora dovrà lottare, a tempo scaduto, per la sua legacy, per non passare alla storia soltanto e semplicisticamente come il premier che ha accompagnato il Regno Unito fuori dall’Europa.
Come la leadership di Tony Blair è stata segnata dalla guerra in Iraq, così quella di Cameron lo sarà dalla Brexit, ma come molti commentatori scrivono il cameronismo è stato molto altro e molto di più di un referendum che Cameron stesso, a lungo, ha tentato di evitare, che poi ha affrontato con un eccesso di leggerezza e infine ha perso. Quando nel 2005 Cameron decise di candidarsi alla leadership dei Tory, tra i saggi più venduti c’era “The Strange Death of Tory England”: i conservatori erano stati schiacciati dai propri leader più aggressivi che brillanti e da un New Labour che aveva ridisegnato i contorni delle appartenenze politiche – il declino pareva inarrestabile. Nessuno allora credeva in Cameron (il favorito era un altro): era troppo figlio di papà, troppo “Notting Hill gang” per poter trasmettere quell’empatia e quella vicinanza agli elettori di cui il partito aveva bisogno. Invece con un mix di franchezza, buone maniere e abilità di marketing, Cameron ha modernizzato i Tory, li ha resi più giovani, più frizzanti, più contaminati da idee poco ortodosse, strappando agli altri partiti il manto del progressismo liberale.
Nel 2010 doveva vincere e non ce la fece: si trovò in una coabitazione che pareva impossibile da sostenere e che poi invece durò cinque anni portando a un successo – inaspettato certo, ma meritato – nel 2015 che avrebbe dovuto accompagnare il cameronismo al suo compimento. Il suo programma di austerità permanente con le riforme del welfare e un aggressivo taglio delle tasse ha reso l’economia britannica la più reattiva di tutta Europa, nonostante le critiche forsennate del Fmi. Pur non volendo tirare troppo la corda del thatcherismo, Cameron ha incarnato un modello politico economico che assomiglia a quello della Lady di ferro, addolcito dal progetto della “Big Society”, che voleva imprimere il cambiamento dal basso in nome di una più forte giustizia sociale. La Big Society non ha mai trovato una formulazione accattivante, ma il dimezzamento del tasso di disoccupazione ha reso il Regno Unito uno dei paesi più flessibili del mondo oltre che un magnete di talenti dall’estero. Questo ha avuto effetti negativi su quell’immigrazione che tanto ha pesato sulla Brexit, ed è a questi fallimenti che tutti guardano, all’irresponsabilità di indire un referendum sciagurato e di non averlo nemmeno saputo vincere. I commentatori oggi sono impietosi, chissà quando inizieranno i rimpianti.