Il conservatore dimezzato
E’ il sistema elettorale australiano, bellezza! Quasi perfetto sulla carta, un misto di massima governabilità alla Camera bassa (con gli elettori che temperano il collegio uninominale scrivendo in ordine il numero di preferenza accanto a ciascun candidato) e allo stesso tempo estrema rappresentatività al Senato (sistema proporzionale per scegliere i rappresentanti di sei stati e due regioni autonome), e tuttavia questa volta non ha funzionato granché. Nell’isola-continente di 24 milioni di abitanti si è votato sabato 2 luglio, ma soltanto domenica scorsa si è saputo con certezza chi avesse vinto. Meglio: con relativa certezza. Due seggi sono ancora da assegnare, in attesa che siano conteggiati tutti i voti per posta – solitamente favorevoli ai conservatori – e che siano smistate le complicatissime preferenze multiple.
Per ora si sa che il Liberal national party (cioè il partito dei liberal-conservatori) ha perso seggi rispetto alla legislatura precedente, scendendo da 90 seggi a quota 74, mentre ne servono almeno 76 per avere la maggioranza, e i laburisti si sono fermati a 71; se si tiene conto soltanto dei primi due partiti, gli elettori sono spaccati quasi esattamente a metà: 50,13 per cento per i liberal-conservatori, 49,87 per cento per i laburisti. Poi ci sono 5 eletti indipendenti e un rappresentante dei Verdi; i conservatori promettono di trovare un’intesa con alcuni di questi. E se la timida avanzata dei laburisti rispetto alle scorse elezioni – 3,5 punti percentuali – non fosse bastata a mandare in tilt il sistema, le si aggiunga pure la dinamica politica attraverso la quale si è arrivati a questo voto: è stato infatti l’ex primo ministro in carica e leader del Liberal national party, Malcolm Turnbull, a convocare le elezioni, sicuro di ottenere una maggioranza più fresca e netta per far avanzare le riforme.
Perciò, di fronte al quasi pareggio, il leader laburista, Bill Shorten, pur con un numero di seggi minore, si è quasi atteggiato a vincitore, affermando per dieci giorni che “il Labor è tornato”, che il partito di governo “ha perso il suo mandato”, e dicendosi sconfitto solo il 10 luglio; allo stesso tempo attorno a Turnbull, che adesso si dice certo di poter formare un governo di maggioranza, si sentono frusciar le sciabole degli stessi colleghi liberal-conservatori. Che non hanno mai digerito del tutto il carattere anomalo del loro leader, diventato per la prima volta premier il 14 settembre 2015, dopo una manovra tutta interna al partito per defenestrare il predecessore Tony Abbott.
Biografa e intervistatrice di Turnbull, la giornalista Annabel Crabb ha sempre sostenuto che la vita del leader in questione sia stata, fino a quel 14 settembre 2015, “una vita enormemente influenzata dall’ambizione”. Innanzitutto contano le origini umili del politico oggi sessantunenne. Poi il fatto di essere stato abbandonato a otto anni dalla madre Coral che prima si trasferisce in Nuova Zelanda e quindi negli Stati Uniti, e che comunque instilla grandi aspettative nel pargolo. “Se mi guardo indietro – disse Turnbull in un’intervista del 2009 – mi riconosco forse a pensare, magari inconsciamente: se lavorassi di più e meglio, mia madre tornerebbe da me? Ecco, se fossi diventato primo ministro forse a lei sarebbe bastato. [Risate] Ma forse nemmeno quello sarebbe stato sufficiente”. Un episodio triste – la dipartita della madre – cui seguì, dopo nemmeno quindici anni, la morte del padre cinquantaseienne in un incidente aereo.
Bruce lasciò in eredità a Malcolm terreni agricoli assediati da un’inattesa siccità, animali da far pascolare e trasformare in reddito, insomma quanto di più distante dai bar della metropoli Sydney che il giovane, appena laureato e diventato padre, non disdegnava. “Con una mossa inattesa e audace – scrive Crabb, caporedattrice politica di Abc, nel suo libro intervista “Stop at nothing” (Black Inc.) – Turnbull si tenne la fattoria. E decise di affogare il proprio dolore nello studio dell’acqua e dei sistemi idrici”. Da qui l’interesse profondo per la storia dell’Antica Roma, per le sue istituzioni politiche e allo stesso tempo per i suoi acquedotti.
All’Università di Sydney Turnbull si era diviso tra gli studi in Legge e le collaborazioni giornalistiche, con le seconde che finirono per prendergli decisamente più tempo. E mentre un giovane e già pugnace Tony Abbott organizzava manifestazioni a favore del Governatore Generale dell’Australia John Kerr, una figura controversa che in nome della Regina Elisabetta II fece dimettere nel 1975 il premier laburista Gough Whitlam e innescò una crisi costituzionale oltre che geopolitica, Malcolm invece era stregato da Jack Lang, governatore laburista dello stato australiano del Nuovo Galles del sud e in vecchiaia curatore di un giornale chiamato “The Century” che divenne sempre più conservatore e anti immigrazione asiatica. Turnbull era affascinato dalle figure politiche borderline, evidentemente, tanto che sempre negli anni universitari viaggiò nel Regno Unito – si recò dove era nata la nonna materna, May Lansbury, grazie a una Rhodes Scholarship dell’Università di Oxford – per intervistare l’ex deputato conservatore Enoch Powell, già allora rimosso dal partito per aver pronunciato, il 20 aprile 1968, il famoso discorso sui “fiumi di sangue”, nel quale preconizzava per il suo paese un futuro di problemi razziali e rivolte urbane simili a quelli che caratterizzavano gli Stati Uniti.
Tuttavia è nel 1986 che Turnbull fa il suo esordio sulla scena politica australiana. In quell’occasione non veste i panni del politico, né quelli del liberal-conservatore. Nel suo studio legale appena fondato con l’amico Bruce McWilliam, giunse infatti una richiesta di tal Peter Wright, una sorta di Edward Snowden ante litteram: l’ex agente segreto di Sua Maestà Elisabetta II voleva pubblicare in Australia una autobiografia intitolata “Spycatcher: The Candid Autobiography of a Senior Intelligence Officer”. In quelle pagine Wright sosteneva, tra le altre cose, di avere le prove che l’ex direttore generale del MI5 fosse una talpa al servizio dei sovietici. In piena Guerra fredda ovviamente il governo di Sua Maestà, guidato allora dalla Lady di ferro, Margaret Thatcher, non poteva gradire la pubblicazione del pamphlet, anzi decise di mettersi di traverso.
Turnbull si appassionò al caso, avviò una fitta corrispondenza con alcuni avvocati e attivisti inglesi, si convinse di essere intercettato dai servizi segreti britannici e questo lo eccitò sempre di più, convincendolo che il caso giudiziario avrebbe dovuto interessare anche la classe politica di Londra. Così, da avvocato, stabilì contatti con alcuni colleghi inglesi e perfino con il segretario del Partito laburista di allora, Neil Kinnock. A quest’ultimo consigliò di attaccare l’attorney general del governo Thatcher, Havers, oltre ad alcuni esponenti della famiglia Rothschild di cui la spia aveva svelato segreti indicibili. A Kinnock che predicava un po’ di fair play, visto che Havers non godeva di ottima salute, uno spavaldo Turnbull avrebbe risposto così: “Caro compagno, tutti devono fare un qualche sacrificio per la rivoluzione. Perché non cominciare con Havers e Rothschild?”. Una telefonata che poi avrebbe messo nei guai lo stesso Kinnock, considerato che l’avvocato australiano nel frattempo era diventato quasi un nemico pubblico del Regno Unito; come disse più tardi un parlamentare inglese, era come se Kinnock, durante la guerra delle Falkland, avesse telefonato al generale argentino Galtieri per una rapida chiacchierata su alcune questioni tattiche.
Fatto sta che Turnbull si confrontò in un’aula di tribunale con lo stesso segretario di Gabinetto della Thatcher, Sir Robert Armstrong, e ne uscì vittorioso, costringendolo ad ammettere pubblicamente che il governo di Londra era disposto a essere “economical with the truth”, cioè era pronto a mentire, “in nome della sicurezza nazionale”. “Spycatcher”, da quel momento, vendette più di un milione di copie in tutto il Commonwealth. Come ha scritto di recente il giornalista Anthony Sharwood, in tutta la sua carriera Turnbull “è stato brillante, coraggioso e più che leggermente brutale quando l’occasione lo richiedeva”: “Ha avuto successo in molteplici e diverse incarnazioni che hanno preceduto quella da politico. Nel 1994 il suo acquisto alla cifra di mezzo milione di dollari di una quota del provider internet australiano Ozemail, venduta cinque anni dopo per 60 milioni di dollari, fu un piccolo capolavoro”. Ventidue anni dopo, si è rivelata tutt’altro che un capolavoro la decisione di sciogliere sia la Camera sia il Senato e convocare nuove elezioni. Il Liberal national party ha vinto sui laburisti, ma gli attuali 76 seggi forniscono una maggioranza ben più risicata dei 90 seggi precedenti.
Cos’è andato storto? Turnbull già alla vigilia del voto, quando i sondaggi lo davano appaiato ai laburisti, lamentava che “nessuno – tra giornalisti e sondaggisti – è in grado di fornirmi spiegazioni dettagliate sulla delusione degli elettori, e questo rende tutto più difficile”. Una prima ipotesi è che il leader liberale abbia cambiato troppe volte posizione da quando è arrivato al potere nel 2015, anche se lui ha sempre ribattuto: “Non sono cambiato di una iota”. Tuttavia già nella sua discesa in campo, forse, è possibile rintracciare le origini di un certo spaesamento del corpo elettorale. Turnbull oggi guida il campo della “destra”, ma ha esordito in politica nel 1997 entrando dalla porta “sinistra”. Allora divenne infatti il leader del movimento referendario che si batteva per trasformare l’Australia in una Repubblica, abbandonando la monarchia britannica. Nel 1999, 6,4 milioni di elettori dissero “no”, mentre 5,2 milioni si pronunciarono per il “sì”. Una sconfitta di misura, ma tant’è. Oggi Turnbull si dice ancora “repubblicano”, ma sostiene che un nuovo referendum sarà bene farlo “solo quando potremo vincere”, cioè probabilmente quando avverrà il passaggio di consegne tra la popolarissima Elisabetta II e il suo successore.
Manifesto per la campagna elettorali in Australia
Stessa confusione sul riscaldamento climatico, tema che in Australia è molto più caldo – è il caso di dirlo – di quanto non accada altrove in occidente. Da una parte perché in una democrazia sviluppata e matura l’elettorato è pronto a dedicare più tempo e attenzione al capitolo “qualità della vita”, e la presenza di un radicato movimento ecologista ne è la prova; dall’altra parte perché, in un’economia in cui è fortissimo il settore dell’industria mineraria e delle materie prime in generale, ogni legge che potrebbe penalizzare il comparto viene contrastata con forza. Dopo la sbornia liberal del premier Kevin Rudd (2007-’10 e poi di nuovo per un breve periodo nel 2013), il leader conservatore Abbott aveva vinto le elezioni del 2013 insistendo anche su questo, cioè sulla necessità di rottamare norme vincolistiche che frenavano l’economia. Turnbull, da deputato, attaccò il leader del proprio partito, definendo “bullshit”, “stronzate”, ogni passo indietro nella lotta al global warming. Con l’avvicinarsi del voto del 2 luglio, invece, è diventato nuovamente tiepido in materia, nel tentativo di differenziarsi dai laburisti.
L’elettore medio non sarà troppo interessato alle posizioni assunte dal premier in politica estera, ma anche qui un analista super partes come Sam Roggeveen, esperto di geopolitica e direttore del sito “The Interpreter”, chiosa: “Turnbull protesti quanto vuole dicendo che egli non è cambiato in nulla da quando è diventato premier, ma questo non è ciò che pensano gli elettori. La sua posizione in politica estera rende più chiaro il punto: negli anni che hanno preceduto la sua ascesa alla leadership del partito, la visione di Turnbull era caratterizzata da una chiara linea di indipendenza rispetto alla crescita cinese e al ruolo degli Stati Uniti nel Pacifico, linea che è stata quasi del tutto annacquata quando è diventato premier”. Così, mentre nel 2012 Turnbull, che ha un figlio sposato con una cittadina cinese, diceva che “la Cina e i cinesi sono parte integrante della storia australiana”, nel settembre dello scorso anno privilegiava invece la vicinanza all’America: “Pochi australiani considerano gli Stati Uniti come un paese straniero. Siamo più che dei semplici alleati, siamo una famiglia”.
Leader fieramente liberista e globalizzante, Turnbull lo è rimasto per certo. E qualche osservatore rintraccia proprio qui un altro punto debole delle ultime settimane di campagna elettorale. Non solo perché i laburisti, spalleggiati da alcuni sindacati, sono riusciti a far passare il messaggio che il nuovo leader avrebbe privatizzato totalmente la Sanità. Era solo una mistificazione, ma un po’ ha funzionato. Inoltre è stato osservato che il leader conservatore, commentando il risultato del referendum inglese sulla Brexit dello scorso 23 giugno, ha detto: “E’ il promemoria di una tesi che sostengo spesso: stiamo vivendo in un periodo di rapido cambiamento economico, un periodo di volatilità. Dobbiamo cogliere tutto ciò”. In altre occasioni ha aggiunto che “essere australiani non è mai stato così eccitante”, consigliando di votare il Liberal national party per garantire stabilità al paese “in un’economia globale di cui non abbiamo il controllo”. Volatilità da cogliere, economia globale fuori controllo, quelle usate da Turnbull sono tutte espressioni realistiche ma non esattamente rassicuranti – ha osservato Roggeveen – specie se pronunciate mentre nel Regno Unito la campagna per la Brexit mieteva consensi ripetendo un mantra di segno quasi opposto: “Take back control”.
Anche sull’immigrazione, infine, Turnbull ha tenuto una posizione sfumata per gli standard conservatori australiani. Ha ripetuto, attaccando laburisti e verdi, che soltanto “delle frontiere robuste e presidiate” possono garantire “il nostro successo, fatto di elevata immigrazione e multiculturalismo”. Ha detto di preferire i respingimenti delle navi che tentano di raggiungere illegalmente l’Australia piuttosto che le tragedie in mare o la detenzione dei clandestini. Ha puntato il dito sul nesso tra mancato controllo delle frontiere e attacchi terroristici in Europa. L’enfasi dei suoi discorsi, però, in definitiva verteva sempre sul “successo multiculturale” di Canberra. Lo scorso mese è stato il primo premier australiano a festeggiare l’interruzione del Ramadan con la comunità islamica locale (salvo poi pentirsi per la presenza di un imam radicale che propone soluzioni radicali per gli omosessuali). In uno stato in cui due persone ogni sette sono nate in un paese diverso dall’Australia, e in cui più di una su quattro ha almeno un genitore straniero, l’immigrazione certo è vista sotto tutt’altra luce che in Europa.
Il multiculturalismo, da intendersi come caratteristica di una società culturalmente variegata, è perlopiù accettato. Più discusso, in questa fase storica, è invece il multiculturalismo come politica pubblica di esaltazione o conservazione delle differenze etnico-religiose, con annessa intendenza in termini di burocrazia e spesa pubblica. A testimoniarlo c’è l’inatteso ingresso in Senato di Pauline Hanson, eletta per la prima volta con il suo movimento anti immigrazione One Nation nel 1996, quando esordì in Parlamento con una frase che destò scandalo: “Credo che siamo in pericolo di essere sommersi dagli immigrati asiatici”. Così, nella seconda metà degli anni 90, per la prima volta si ruppe l’incantesimo multiculturalista, dopodiché le politiche messe in campo dai conservatori – dure contro l’immigrazione irregolare, generose sui flussi di ingressi per lavoro e tiepide con il multiculturalismo – contribuirono a sgonfiare il primo segnale identitario esterno ai grandi partiti.
Dopo anni di sottobosco, tra grane giudiziarie e flop elettorali, riecco in Parlamento Pauline con la sua chioma rossa. Andrew Bolt, commentatore del gruppo News Corp di Rupert Murdoch, l’ha appena intervistata ed è stato costretto a cambiare casa per aver ricevuto minacce di morte da alcuni fondamentalisti islamici. Lo stesso Bolt che ha chiesto a Turnbull di dimettersi per il magro risultato ottenuto. Così, nell’Australia felix, unico paese industrializzato a essere sfuggito alla recessione iniziata nel 2008 in occidente, Turnbull muove i primi passi da conservatore vincente ma dimezzato.