La guerra mondiale inizierà nel Mar cinese meridionale? Robert Kaplan spiega gli incidenti da evitare
Roma. Ci vorranno giorni per studiare le cinquecento pagine di sentenza depositate ieri dai cinque giudici della Corte permanente di Arbitrato dell’Aia, ma la sostanza è una e una sola: le rivendicazioni storiche della Cina nel Mar cinese meridionale non hanno alcun fondamento legale. Il caso è quello di cui si parla sin dal 2013, quando Manila ha deciso di portare il problema alla Corte dell’Aia dopo i numerosi incidenti provocati da Pechino nel tentativo di modificare lo status quo dell’area. L’espansionismo cinese, con pattugliamenti militari e la costruzione di isole artificiali in acque contese, ha come obiettivo il riconoscimento internazionale della Linea dei nove punti, ovvero il Mar cinese meridionale così come rappresentato nelle antiche mappe cinesi: il 90 per cento di proprietà di Pechino.
Secondo molti osservatori la sentenza di ieri che dà ragione alle Filippine ma soprattutto condanna l’assertività cinese – ed è quindi applicabile anche in altre aree reclamate da Pechino – rischia di essere cruciale nella crescita della Cina come potenza egemone dell’area. Perché non riguarda soltanto un remoto angolo del pianeta, e non riguarda soltanto la territorialità di un gruppo di scogli, ma influenza l’equilibrio di potenze che si confrontano in Asia. Ne è convinto Robert D. Kaplan, scrittore di fama internazionale e senior fellow al Center for New American Security di Washington. Kaplan è autore di numerosi saggi sulla politica internazionale; nel 2012 ha scritto il celebre “La rivincita della Geografia” e due anni dopo ha pubblicato “Asia’s Cauldron” sui conflitti marittimi nel sud-est asiatico e l’assertività cinese nell’area. In un’intervista con il Foglio, Kaplan dice che “visto il modo in cui la globalizzazione sta rafforzando la geopolitica, il mondo è più interconnesso che mai”. E quindi, spiega Kaplan, tutto ciò che Pechino deciderà di fare nei prossimi mesi avrà ripercussioni sugli equilibri mondiali: “Il modo in cui gli Stati Uniti reagiranno all’atteggiamento cinese nel Mar cinese meridionale influenzerà il loro ruolo di potenza anche in Europa e in Russia”. La Crimea, appunto, usata spesso come esempio per spiegare il doppiopesismo di Washington nei confronti di Mosca e di Pechino. Ma tutto quello che sta accadendo nel Pacifico – il “calderone”, come ha avuto modo di descriverlo Kaplan con una ficcante metafora di elementi che ribollono, pronti a esplodere – ecco, secondo lei il calderone rischia di diventare una guerra? “Sia l’America sia la Cina vogliono di certo evitare un conflitto”, dice Kaplan, “ma la storia è piena di incidenti che hanno portato a un confronto armato”.
Del resto quella di ieri è la prima sentenza internazionale che condanna la Repubblica popolare cinese. Pechino ha ribadito più volte di non riconoscere l’autorità della Corte permanente di Arbitrato, adita da Manila grazie alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, entrata in vigore nel 1994 e ratificata da 167 paesi. Anche la Cina ha ratificato la convenzione, ma non ha mai voluto prendere parte al procedimento dell’arbitrato del 2013, aprendo così un dibattito internazionale sul carattere vincolante di un arbitrato in cui manca la “consensualità” tra le parti. La sentenza è stata festeggiata dai filippini su Twitter, e appoggiata dagli altri paesi che affrontano il problema della navigabilità delle acque, della pesca illegale e dello sfruttamento delle risorse (Indonesia, Malesia, Vietnam, Giappone). Il segretario degli Affari esteri filippino, Perfecto Yasay, ha parlato di una sentenza che è una “pietra miliare” nei complicati rapporti tra vicini nel Pacifico, e più tardi il ministero degli Esteri di Manila ha diffuso un comunicato in cui chiede “calma e sobrietà” a tutte le parti interessate. Il problema, infatti, è adesso vedere quali saranno le prossime mosse della Cina, se deciderà di reagire militarmente oppure no. Il premier di Pechino Li Keqiang ha detto ieri che la Corte “ha portato la controversia in un territorio pericoloso, peggiorando le tensioni e lo scontro”. A questo punto, pur di evitare un conflitto, Washington potrebbe decidere di evitare il problema nel Pacifico – come auspicato da Donald Trump – o di rafforzare, per esempio, un pivot europeo. Ma per Robert Kaplan, la presenza americana nel Pacifico non è in discussione: “Il cosiddetto pivot to Asia è permanente. Ma in quanto grande potenza, l’America ha la capacità di adempiere alle proprie responsabilità, anche in Europa”.