Il doppio fine dietro l'idea di Erdogan di rendere cittadini i profughi
Berlino. La Turchia punta a “buone relazioni” con Siria e Iraq. Parola del premier turco Binali Yildirim. “Amplieremo il raggio delle amicizie – ha detto ieri – Abbiamo già iniziato a farlo. Abbiamo proceduto con la normalizzazione dei rapporti con Israele e Russia. Ora sono certo che arriveremo alla normalizzazione delle relazioni con la Siria. Ne abbiamo bisogno”. Non è l’unica appariscente svolta in arrivo da Ankara negli ultimi giorni. Rifarsi una verginità sulla scena internazionale, rafforzarsi su quella interna. Sono questi gli obiettivi del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, intenzionato pure a naturalizzare quasi tre milioni di profughi siriani residenti in Turchia. “Concedere loro la cittadinanza farebbe gli interessi del nostro paese e migliorerebbe la condizione dei rifugiati”, ha dichiarato lo stesso capo di stato. Le sue parole sono state accolte da un triplice no da repubblicani (Chp), nazionalisti (Mhp) e progressisti curdi (Hdp).
Repubblicani e nazionalisti turchi accusano Erdogan di utilizzare i profughi siriani come strumento per aumentare il consenso del suo partito (Akp) e come grimaldello per modificare la struttura demografica nel sud-est del paese; per i progressisti curdi (Hdp) l’operazione è destinata a far aumentare la violenza e il pregiudizio contro le minoranze. Chi ha ragione? Tutti, compreso Erdogan. Secondo Yasar Aydin, turcologo dell’Università di Amburgo, il rafforzamento dell’Akp sarebbe automatico: “Stiamo parlando di un nemico di Assad che apre alle vittime della guerra civile in Siria. E’ evidente che alle prime elezioni, Erdogan incasserebbe almeno due milioni di nuovi consensi”. Le proteste dei curdi sono poi disinnescate in partenza: “Nessuno può dire al governo ‘questa è una zona curda, qua non li vogliamo’”. L’operazione sarebbe invece più difficile sotto il profilo economico poiché “molti siriani sono lavoratori poco qualificati: una categoria già abbondante in Turchia”.
Secondo Jean Marcou, docente di Relazioni internazionali a Sciences Po a Grenoble, naturalizzare i siriani permetterebbe al presidente di rafforzare il blocco sunnita e conservatore sui cui poggia l’Akp, un partito che raccoglie molti consensi anche fra i curdi. Visti dall’esterno, argomenta il docente, sembra che i curdi siano tutti per il Pkk e contro lo stato islamico, “ma non è certo così: ci sono nazionalisti conservatori, progressisti, islamici pro Akp, e veri e propri gruppi jihadisti”. E’ d’accordo Aydin secondo cui il Pkk è “ben lontano” dall’aver coagulato il consenso della maggioranza dei curdi. Per cui un curdo islamico del sud-est voterà Akp allo stesso modo di un siriano islamico con il nuovo passaporto turco. La mossa di Erdogan è anche parzialmente obbligata, concordano i due accademici: se domani in Siria scoppiasse la pace solo un quarto dei profughi vorrebbe tornare a casa, meglio dunque integrarli che lasciarli nel limbo attuale di “ospiti temporanei”.
Sulla scena internazionale, Erdogan potrebbe poi presentare la Turchia come paese di immigrazione guardando l’Europa dall’alto in basso: voi li respingete, noi addirittura li naturalizziamo. I propositi del presidente confermano la sua recente svolta in politica estera: meno ideologia e più pragmatismo. Finita la spinta anche finanziaria della primavera araba, il medio oriente ha voglia di normalizzazione, spiega Marcou. La tensione fra Turchia e Russia, per esempio, “porta solo a grossi danni economici fra i due paesi”. Lo stesso vale per Israele, paese messo all’indice per sei anni anche per accrescere il prestigio turco nel mondo arabo. “Le relazioni con gli arabi non sono più tanto buone: perché dunque restare in conflitto con Israele? Gli scambi fra i due paesi sono importanti e la Turchia ha bisogno di uscire dall’isolamento”. Sullo stesso tasto preme anche Aydin: “Israele, non dimentichiamolo, è una democrazia, un bene raro in questa regione”. La prossima apertura di Erdogan sarà forse verso l’Egitto, paese con cui i rapporti sono pessimi: il sultano ha sempre sostenuto l’ex presidente islamico Morsi. Il generale al Sisi se l’è legata al dito e per riallacciare con il Cairo servirà più tempo.
L'editoriale dell'elefantino