Il modello israeliano anti terrorismo nelle parole di Yishai, ex direttore della radio dell'esercito di Gerusalemme
“Siamo un teatro piccolo rispetto all’Europa, quindi tutto è più facile. Ma poi: intelligence, intelligence, intelligence. Detenzione amministrativa e controlli approfonditi su sospettati e familiari. Ma il terrorismo resterà a lungo con noi”.
Berlino. In pochi minuti passa dall’accordo Sykes-Picot, che nel 1916 ha ridisegnato la cartina politica del Medio Oriente, agli stipendi d’oro degli smanettoni pagati dal califfo al-Baghdadi per gestire la propaganda in rete dello Stato islamico. Ron Ben Yishai è un fiume in piena, ma parla sempre con cognizione di causa. Nato a Gerusalemme nel 1943, Ron è un veterano fra gli inviati di guerra israeliani: l’attrito con Egitto e Giordania, il Golan, la guerra del Kippur, l’invasione turca di Cipro, il Nagorno-Karabakh, e ancora l’ex Jugoslavia, i mujaheddin afghani, la guerra del Golfo e la Cecenia sono solo alcuni dei conflitti o dei combattenti che ha raccontato. Ben Yishai è stato direttore della radio delle Israeli Defense Forces, un ruolo istituzionale che non gli ha impedito di dare vita a uno dei personaggi di Valzer con Bashir, il film israeliano d’animazione del 2008 sul conflitto fra Israele e il Libano nel 1982. Al Foglio spiega di essere in Europa per raccontare il terrorismo alla luce dell’esperienza israeliana. Ed è subito doccia fredda. Non si illuda il cittadino europeo che lo Stato ebraico, circondato com’è da nemici di prima categoria, sia messo tanto peggio del Vecchio continente.
“Noi siamo un teatro piccolo, ed è certamente più facile controllare il terrore fra dieci milioni di persone che su scala europea”. La strategia di approccio alle minacce del radicalismo deve però essere la stessa: “Intelligence, intelligence, intelligence!”. Occorre osservare, analizzare e filtrare sia i gruppi suscettibili di compiere azioni terroristiche sia le persone potenzialmente informate dei loro piani. Il che non significa solo infiltrare agenti nelle varie Molenbeek europee, ma cercare i jihadisti su Facebook. “Perché quando comunicano fra loro o leggono le informazioni inviate dall’Isis, riscontriamo sempre l’impiego di alcuni modelli comunicativi che ci permettono di individuarli”. La parola chiave è Osint (open source intelligence): setacciare i social media senza farsi intimidire dal volume assordante delle comunicazioni. “La maggior parte delle informazioni sensibili che abbiamo arrivano proprio dal big data mining”. Un lavoro che si rivela del tutto inutile se lasciato fine a se stesso, sottolinea Ben Yishai. “Da noi esiste la detenzione amministrativa: basata su una legge britannica d’emergenza del 1945 ci permette, su convalida del giudice, di arrestare fino a sei mesi i sospettati di terrorismo”. Gli chiedo se ritiene che anche l’Europa dovrebbe dotarsi di leggi simili. “Non lo so”, risponde, “io vi racconto solo come funziona da noi”.
Di certo, insiste, occorre sempre il massimo sforzo per trovare delle prove. E se queste non si trovano, non si smette di controllare il sospettato e i suoi famigliari finché ogni dubbio è fugato. Non è voglia di autoritarismo, mette le mani avanti, “ma lo stragista del Pulse di Orlando era stato fermato e interrogato dall’Fbi per due volte. E poi lo avevano rilasciato”. Intelligence, secondo Ben Yishai, fa rima con prevenzione: ecco perché il giornalista contesta l’espressione “combattere” le azioni terroristiche, che invece “si prevengono con l’intelligence, si interrompono, o si intercettano all’ultimo minuto. Quando si combattono vuol dire che siamo arrivati troppi tardi”. E poi un’altra doccia fredda: sul breve periodo il terrorismo non può essere eliminato: “Lo si può solo reprimere, portandolo a un livello tollerabile”. Rimane poi l’opzione militare. È vero, continua l’ex inviato di guerra, che la pressione sull’Isis sta dando i suoi frutti: il Califfo arretra sotto i colpi della coalizione e dei peshmerga curdi, e anche l’esodo dei civili dalle zone sotto il suo controllo priva l’Isis di importanti risorse finanziarie. “Il terrore però è come l’argento vivo”, conclude, “lo schiacci da una parte e si frantuma in mille schegge tutto attorno. Il caso di al-Qaeda, che ha colonizzato il mondo sotto la pressione americana in Afghanistan, è esemplare”.