La guerra tra islam e occidente in Francia è già guerra civile
Il vecchio e venerabile Bernardo Valli dice che il massacro di Nizza è una provocazione per indurre la Francia alla guerra civile. Gliela passiamo? No, non si può. La guerra è in corso, e in Francia la guerra tra islam e occidente è già da tempo anche guerra civile. Siamo costretti ogni volta a ripeterlo, da angolature di sangue e lacrime diverse, e a risultare petulanti in un mondo di sordastri che non vogliono sentirla. Infatti la Francia contiene in sé un’altra nazione con il suo alto profilo identitario sul piano culturale e religioso, l’islam, e con i suoi problemi sociali e comunitari, contrapposta a una certa Francia ex coloniale, funestata da esotismo gauchista e sensi di colpa, che ha la spiccata tendenza a sottomettersi alla religione della sottomissione (l’islam), mentre l’altra nazione composta di diverse destre si avvia a mietere successi cavalcando il fatto della guerra che i progressisti negano a parole.
Il primo ministro socialista riformista da tempo batte impotente su questo: è guerra. Il presidente socialista pragmatico ieri per la prima volta ha parlato di terrorismo “islamista”: e ha prorogato il non molto utile ma comprensibile stato d’emergenza relativo a questa guerra internazionale che è anche guerra interna. Ebrei, vignettisti, ancora ebrei, poi movida serale a Parigi, poliziotti in casa loro, silenzio agli Europei di calcio, ecco ora la strage del 14 luglio a Nizza sotto i fuochi d’artificio: adulti e bambini sottomessi e martoriati da un camion che diceva di portare gelati alla festa della rivoluzione, della patria, dell’uomo nuovo e dei suoi diritti e valori egualitari fraterni libertini. Siamo stati di nuovo serviti con la dose di morte e di sangue acconcia alla macelleria halal. Un qualunque trentenne, autista e balordo nato in Tunisia e cresciuto a Nizza, realizza in un gesto apparente di isteria mortuaria, senza premesse complesse di radicalizzazione ideologica, invisibile nel suo odio per il popolo tra cui vive, uno spettacolare orrendo ordinario massacro, festeggiato dallo stato islamico e dall’internazionale del jihad, sul luogo del dondolarsi familiare al bordo del mare, la Promenade des Anglais, il rettifilo dolce popolare e mondano di una delle capitali della bellezza costiera mediterranea.
Non sono questioni nazionali, né semplicemente europee. Non sono questioni di polizia né di politica educativa e culturale. Non bastano, anche se in certi casi sono più che utili, i servizi segreti, la famosa intelligence. Sono un disservizio grave le legislazioni autodifensive sulla laicità, le autotutele ideologiche di ogni tipo, per non parlare dei tentativi di bonificare con le concessioni e le rese a discrezione il territorio del multiculturalismo impazzito o i territori perduti della République, le banlieue, le carceri, le chiese cattoliche sconsacrate, le moschee rampanti, i luoghi di socializzazione criminale e perfino le solitudini famigliari in cui cresce la mania depressiva jihadista e assassina. Una guerra è una guerra. Una guerra globale a sfondo religioso, radicata nella fede della umma e nel dettato scritturale e profetico che impone la violenza contro il miscredente come dovere politico e mistico del buon musulmano, non è risolvibile con la sociologia o con la teologia pastorale delle buone intenzioni e dell’incontro integratore. Finisce una simile guerra solo se combattuta, dichiarata, praticata con efficacia e rigore, somministrando al nemico una violenza incomparabilmente superiore a quella subita nel quadro di una strategia di riscrittura della carta geografica mondiale: dicesi esportazione della democrazia, dinamica armata delle libertà civili, dicesi imperialismo e ordine mondiale, promozione di nuove classi dirigenti e rovesciamento delle vecchie.
Saranno teoremi astrusi, ma ci avete mai pensato alla relazione tra cedevolezza irenista e sussulti di guerra e di terrore? Quattro anni di Jimmy Carter (democratico) ed è arrivato Khomeini nel ’79. Bush Sr. (repubblicano) punisce Saddam con la prima guerra del Golfo e predica un nuovo ordine mondiale con gli eserciti di Colin Powell. Segue Bill Clinton (democratico), con otto anni di illusioni globalizzatrici che escludono in medio oriente la diplomazia della forza e la forza (felice eccezione i Balcani infine pacificati). Arriva l’11 settembre, venti mesi dopo l’esaurimento al suo inizio del ciclo della gioia e della new economy. Con Bush Jr. (repubblicano) americani e coalizzati si battono, uno le dà e le prende, si fanno errori come in ogni guerra, alla fine si retrocede dal programma massimo di riscrivere la carta del medio oriente allargato. E seguono, dopo il surge del generale David Petraeus che stabilizza il regime change a Baghdad, otto anni di “riluttanza” obamiana e di leading from behind del Nobel per la Pace: dilagano migrazioni bibliche e terrorismo, soft jihad e stati califfali, tremano Afghanistan e Iraq dopo il ritiro, prosperano gli ayatollah prenucleari e i wahabiti in concorrenza, Erdogan e Putin aggressivi, macello in Siria senza fine, jihadismo internazionale dispiegato e funesto. Tutti i teoremi sono astrusi, e le cose sono più complicate dei teoremi. Ma qui ci fanno secchi come birilli in casa nostra e noi, aspettando Trump e magari Marine Le Pen, continuiamo a ruminare erbacce politicamente corrette.
l'editoriale dell'elefantino
C'è speranza in America se anche i conservatori vanno contro Trump
tra debito e crescita